A 50 anni esatti dall’apertura del Concilio Vaticano II, definito dal Card. Agostino Vallini – Vicario di Roma, la Diocesi del Papa – «una vera pentecoste per la Chiesa e per il mondo», per la Chiesa italiana è giunto il momento di fare il punto su un tema delicato ma essenziale per le sfide che la famiglia e la Chiesa stessa si trovano a vivere oggi: il rapporto tra presbiteri e sposi.
Abbiamo scritto sposi, e non solamente e semplicemente laici, perché il Catechismo della Chiesa Cattolica è molto chiaro al riguardo: «L’Ordine e il Matrimonio sono ordinati alla salvezza altrui. Se contribuiscono anche alla salvezza personale, questo avviene attraverso il servizio degli altri. Essi conferiscono una missione particolare nella Chiesa e servono all’edificazione del Popolo di Dio» (n. 1534).
Purtroppo, dobbiamo spesso registrare una visione di Chiesa ancora troppo clericocentrica, nella quale agli sposi viene riservato, al massimo, il ruolo di semplici esecutori. Ma così, è difficile costruire vere comunità: «Difficile immaginare il rapporto tra un presbitero e la sua comunità senza la dimensione nuziale. Altrimenti è solo un ufficio, un compito burocratico», ha affermato don Paolo Gentili aprendo a Nocera Umbra la XIV Settimana di studi sulla spiritualità coniugale promossa dall’Ufficio Nazionale per la pastorale famigliare della Conferenza Episcopale Italiana, di cui è direttore, dedicata appunto alla relazione tra presbiteri e sposi. Ed ha proseguito richiamando l’omelia che Benedetto XVI ha pronunciato lo scorso settembre al Congresso eucaristico di Ancona: «La famiglia è luogo privilegiato di educazione umana e cristiana e rimane, per queste finalità, la migliore alleata del ministero sacerdotale. Per questo, occorre saper integrare ed armonizzare, nell’azione pastorale, il ministero sacerdotale con l’autentico Vangelo del matrimonio e della famiglia».
Due diversi ministeri, due diverse situazioni di vita che si devono integrare, uscendo da logiche di subordinazione e riconoscendo a ciascuno pari dignità, perché entrambi derivano dall’unico sacerdozio di Cristo.
«Il sacerdozio di Cristo è iscritto in tutti i battezzati, e i due sacerdozi – quello comune e quello ordinato – si realizzano nella reciprocità, non nella competizione. Solo insieme si rende credibile e efficace l’azione ecclesiale» ha affermato Ina Siviglia, docente di antropologia teologica a Palermo, in un intervento applauditissimo dagli oltre trecento partecipanti, presbiteri, coppie, religiose e seminaristi provenienti da oltre ottanta diocesi. Altrettanto stimolante il contributo di Xavier Lacroix, teologo laico francese, tra i maggiori esperti europei di matrimonio e famiglia, che ha tracciato un affascinante parallelismo tra Eucaristia e Matrimonio: «Entrambi implicano il dono del corpo. Dobbiamo superare la divisione tra corpo ecclesiale e corpo sponsale, perché l’Eucaristia è il sacramento della vita donata, ed anche il matrimonio è fondamentalmente questo».
Ma quanto è diffusa nelle nostre comunità la consapevolezza delle ricchezze presenti nei due ministeri? Certamente ancora troppo poco: ancora i presbiteri sono visti come gli “uomini del sacro”, mentre gli sposi sarebbero dediti alle “cose profane”. Perché? Mons. Mario Russotto, vescovo di Caltanissetta, è molto chiaro: «Sbagliando, pensiamo ai presbiteri e agli sposi come a due vocazioni diverse. La vocazione è una sola: è la vocazione all’amore, a Dio che è l’Amore perfetto. Poi ci sono le diverse vie che uno può percorrere, quella al matrimonio, che è inscritta nelle fibre di ciascuno, e quella di chi rinuncia all’amore per amore, ma che non è al di fuori della logica dell’incarnazione e dell’amore donato. Per questo, ogni prete dovrebbe essere per così dire affidato ad una famiglia».
Gli ha fatto eco Mons. Enrico Solmi, vescovo di Parma e presidente della Commissione episcopale per la famiglia: «I tre compiti fondamentali del presbitero – reggere, insegnare, santificare – sono gli stessi che i coniugi hanno nella Chiesa domestica. Dall’unica croce di Cristo scaturiscono sia la carità pastorale (del presbitero) che l’amore coniugale. È allora fondamentale trovare dei luoghi e degli spazi di incontro, non casuali ma programmati e innovativi, in cui sostenersi ed anche correggersi a vicenda. La famiglia può aiutare il prete a restare agganciato alla realtà, a fare in modo che nelle nostre comunità si respiri un’aria sana». Ed ha concluso con quella che può essere una formidabile indicazione per il cammino della “nuova evangelizzazione” a cui tiene particolarmente Benedetto XVI: «Una ministerialità di comunione tra presbiteri e sposi offre una mano tesa e un volto di Chiesa che tanti attendono».
Il prossimo anno, seconda tappa di questo cammino: valutare le ricadute pastorali delle acquisizioni teologiche di questa prima settimana di studio, e soprattutto immaginare percorsi praticabili perché la relazione presbiteri-sposi diventi realmente sorgente di fecondità per le nostre comunità parrocchiali. A questo proposito, è interessante l’annotazione che – a margine dell’incontro – ci ha fatto don Paolo Ciotti, presbitero della diocesi di Milano, psicologo e consulente familiare: «Sarà importante mettere a tema anche le difficoltà relazionali, le incomprensioni o i conflitti: non illudiamoci che basti solo una buona teologia, o le indicazioni del magistero. Serve anche una certa maturità relazionale e psicologica. Non sostituisce la fede e la spiritualità, ma certamente può essere d’aiuto. Anche su questo dobbiamo ancora camminare».
Don Paolo Gentili, presbitero della diocesi di Grosseto è dal 2010 il direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale familiare della Conferenza Episcopale Italiana, che ha organizzato la Settimana di studi di Nocera Umbra, dal 27 aprile all’1 maggio 2012. A don Gentili abbiamo rivolto alcune domande per tentare un bilancio di questa settimana di confronto e condivisione.
- Don Paolo, al termine di questi giorni, dedicati allo studio della relazione tra il ministero del prete e quello degli sposi, ci dica uno slogan per sintetizzare il senso di quanto emerso.
«Credo che abbiamo visto all’opera una Chiesa tutta ministeriale, dove sposi e presbiteri – nella distinzione dei rispettivi compiti – vivono però l’ unità della Chiesa e aiutano a mostrarne un volto nuovo. Direi il volto di un “mondo a colori”, nel senso di tante differenze che diventano ricchezza, tante vocazioni che fioriscono in un unico giardino, tante famiglie e presbiteri che insieme costruiscono la Chiesa».
- A partire da questo Convegno, cosa ci attende come compito, sia per la settimana dell’anno prossimo che anche in una prospettiva più ampia?
«Credo che il compito sia soprattutto sollecitare le Chiese locali, le associazioni, i movimenti, le nuove comunità ad una riflessione più approfondita sulla ministerialità sponsale e sulla ministerialità presbiterale. Una riflessione che deve avvenire nei vari luoghi della vita umana, quindi anche negli affetti, nel mondo della fragilità, nella società, nella distinzione tra i tempi del lavoro i tempi della famiglia, nel vivere la festa come una vera gioia che si apre alla vita comunitaria… Insomma, in tutte le dimensioni ma soprattutto nel passaggio della fede tra le generazioni, in cui i preti e i presbiteri insieme illuminano anche questo anno – l’anno della fede – a cui ci stiamo preparando».
- Proprio per questo “anno della fede”, può essere riproposto quanto ha detto Mons. Enrico Solmi, e cioè che una Chiesa tutta ministeriale è “un volto di Chiesa che molti attendono”?
«Assolutamente sì. Io ho concluso il mio intervento con un’immagine: “una Chiesa ministeriale: un mondo a colori”. Vuole dare l’idea di una vivacità, che nella differenza e nella distinzione crea una grande vitalità. Probabilmente, molti presbiteri non si accorgono di quanto possono ricevere nell’incontro con gli sposi, e probabilmente a molti sposi manca questo confronto…».
Xavier Lacroix, sposato, padre di tre figli, è docente di teologia morale presso l’Università di Lione e uno dei maggiori esperti di matrimonio e famiglia in Europa. Con lui abbiamo cercato di mettere a fuoco il concetto di famiglia in Europa.
- Professore, il dibattito sulla famiglia in Europa sembra monopolizzato da questioni come le convivenze, la coppia omosessuale, le “nuove forme” di famiglia che sembrano aver preso il posto della famiglia tradizionale. A suo parere in Europa possiamo parlare ancora di famiglia, o questa sembra destinata a scomparire?
«Qualche anno fa ero in Italia, ad un convegno, e la definizione di famiglia che emergeva era “il luogo in cui vi è almeno un adulto e un bambino”. Questa definizione è – diciamo così – minimale. A mio parere, non c’è però motivo perché quando si parla di famiglia ci si debba mantenere “al minimo”. Non ci manteniamo al minimo quando si parla di salario, o della felicità o del piacere. Anche per la famiglia bisogna allora parlare del meglio, dell’ottimo, non solo del minimo, e il meglio è che il bambino abbia due genitori. Quindi penso che oggi come ieri vale la definizione di famiglia come di un gruppo che si costituisce attorno a dei legami di alleanza e di filiazione. In tutte le culture, chi dice famiglia dice alleanza e filiazione. Quindi filiazione si, ma sulla base di un’alleanza tra due persone, perché ogni persona è nata da due, dal corpo di un uomo e dal corpo di una donna, e mi pare che istituzionalizzare questo legame – tutte le culture l’hanno fatto – sia qualcosa da continuare a fare. Anche se gli intellettuali e il “discorso ufficiale” lo dimenticano, i comportamenti reali testimoniano di un consenso a questo fatto: la gente lo sa. Anche in Francia, dove il matrimonio sembra più in crisi che da voi, la maggioranza delle persone si sposano. Le persone sanno bene che è importante che il legame di alleanza tra i due genitori sia istituzionalizzato, non sia solo qualcosa di sentimentale».
- Lei pensa che la deriva intellettuale di cui ha parlato ponga dei rischi per la stessa coesione della società europea?
«Il rischio è che questa rappresentazione si moltiplichi, si sviluppi, e che quindi l’individualismo trionfi: ciascuno è guidato solo dal proprio desiderio, dal proprio bisogno psicologico, e quindi il senso del legame, dell’essere legati si perde. Se in una relazione io sono motivato unicamente dal mio interesse, il mio interesse psicologico e affettivo, ebbene questa relazione è una relazione molto fragile. Per questo è importante conservare il senso del legame, della solidarietà, dell’obbligo. La relazione non passa solo dal mio interesse, ma fondamentalmente dalla solidarietà, soprattutto se siamo due genitori».
- È possibile fare un discorso simile anche a proposito dell’Europa e della fede? Papa Benedetto XVI parla spesso della “mancanza di fede”. Lei pensa che la cultura moderna – o post-moderna – abbia operato una marginalizzazione della fede, o che sotto la cenere, per così dire, restino delle aspirazione al trascendente, a qualcosa che vada oltre la materialità?
«Penso che se i cristiani tacciono, stanno in silenzio, altre credenze, altri discorsi ne prendono il posto. Attualmente in Francia, ad esempio, c’è una grande diffusione del parapsicologico, della credenza nella reincarnazione, dell’occultismo. Dunque, resta il bisogno dell’invisibile, direi, e se non c’è più la parola religiosa, la parola cristiana, essa è rimpiazzata da altre parole, che sono a mio parere molto più incerte. Ad esempio, sono più i francesi che credono nella reincarnazione di quelli che credono nella resurrezione, ed è buffo, perché la reincarnazione è una dottrina che non è realista: l’idea che lo stesso IO possa continuare in un altro corpo mi sembra di un dualismo incredibile. Al contrario, la resurrezione è molto più centrata su un fatto reale, che è la resurrezione di Cristo, e su gli altri legami con il Cristo. Dunque, se c’è il silenzio dei cristiani, altri messaggi prendono il posto dell’annuncio cristiano».
- A suo parere, la Chiesa deve cambiare qualcosa nelle modalità del suo annuncio, del suo modo di essere missionaria in una società che non è più cristiana?
«Non ho lezioni da fare alla Chiesa, non voglio fare il magistero del Magistero… penso semplicemente che da un lato la Chiesa siamo noi, e dall’altro che è bene che nella Chiesa ci sia una pluralità di discorsi. C’è molto lavoro, per tutti, lavoro che penso si possa riassumere in due compiti fondamentali: un annuncio che raggiunga i laici, la loro umanità, sui beni umani fondamentali, come ad esempio l’essere padre e madre e il loro legame, la differenza sessuale, con argomenti umani, antropologici, quindi laici. Poi sappiamo che queste realtà sono difficili da vivere, che la solidarietà tra gli sposi è molto difficile da vivere, e quindi servono delle risorse spirituali. Come cristiani, noi abbiamo delle risorse da proporre: le risorse del senso dell’amore, dell’agape, del dono, dell’alleanza, dell’eucaristia che deve nutrire la fede coniugale… Dunque una parola propriamente cristiana, di spiritualità cristiana va detta. Entrambi gli annunci sono necessari».
- Tra meno di un mese, ci sarà a Milano il VII Incontro mondiale delle famiglie, dedicato a famiglia, lavoro e festa. È un tema laico, che giunge proprio durante la grave crisi economica e finanziaria che ha colpito l’Occidente. È importante parlare oggi di famiglia, lavoro e festa?
«Direi che va sottolineato il fatto che i termini sono tre, mentre invece normalmente la riflessione si limita a due, famiglia e lavoro, sia quanto c’è troppo lavoro, per il padre o per la madre, sia quando non c’è lavoro, c’è disoccupazione. Dunque, ci sono molte tensioni tra la famiglia e il lavoro, e come succede spesso quando ci sono contraddizioni, è in un terzo termine che troviamo non la soluzione, ma direi l’ouverture, un nuovo punto di vista sulla questione. Per questo è importante la parola “festa”, che dice altre cose sulla famiglia, dice l’appartenenza. Una festa è per forza di cose collettiva, comunitaria… una festa può essere familiare, naturalmente, un anniversario o il Natale, ma tutti sanno che nella festa unicamente familiare non ci sono tutte le dimensioni della festa. La festa nel senso profondo della parola richiama una comunità, un’appartenenza, e si può dimostrare come l’appartenenza (ad esempio l’appartenenza ad una comunità come la Chiesa, o anche ad una comunità più ampia della Chiesa) può aiutare la famiglia, perfino – se l’appartenenza è reale - in senso materiale».
Mons. Mario Russotto, biblista, vescovo di Caltanissetta dal 2003, è membro della Commissione episcopale per la famiglia e la vita. E' interessante capire da lui quali luci la Bibbia possa dare quanto al tema della collaborazione tra laici e sacerdoti.
- Eccellenza, Spesso si parla di presbiteri e sposi come di due vocazioni, e di due vocazioni un po’ in conflitto, o perlomeno non sul medesimo livello di dignità. Come possiamo oggi vedere in modo corretto queste due vocazioni?
«Parlo da vescovo e da biblista, con la mia sensibilità. Io penso che la vocazione sia una, una sola. Nella Bibbia spesso ritorna: pensiamo a “siate santi come io sono santo” (Levitico, 19, 2), e poi a quella che fu la prima tentazione dell’umanità, “diventerete come Dio” (Genesi 3,4). Questa è l’aspirazione dell’uomo e della donna, diventare come Dio, perché siamo Sua immagine… anche tutta la spiritualità orientale si è sempre basata sulla risposta alla vocazione come ricerca della somiglianza con Dio. Quindi per me la vocazione è una sola: essere come Dio. L’ideale è uno: è Dio, e noi dobbiamo arrivare a Lui. Se invece il sacerdozio e il matrimonio vengono viste come due vocazioni, quasi separate o in conflitto, è chiaro che ognuno tende a far prevalere il suo ideale. Ma se l’ideale è Dio, e tutti comunque a Lui dobbiamo arrivare, allora sacerdozio e matrimonio sono le due vie che Dio ha disegnato per arrivare a Lui. In questo modo non c’è prevaricazione, non c’è conflitto tra le due vie, che si dipartono da Dio perché sono un dono suo».
- Qual è allora la differenza tra le due vie?
«Per natura noi tutti abbiamo la vocazione sponsale, nuziale, perché è solo in questa relazione di reciprocità sponsale che siamo immagine di Dio. Per cui, se un prete non sente questa nuzialità, è meglio che non si faccia prete: fa un danno a se stesso e alla Chiesa, e non arriverà neanche a Dio! Quella del matrimonio è quindi la via naturale per arrivare a Dio, perché è il dirsi di Dio nella sua identità: Dio è amore, e Dio si dice nella relazione tra un uomo e una donna uniti in matrimonio. Però, con l’incarnazione, cosa ha fatto Dio? Non ha considerato le sue prerogative un tesoro geloso, si è svuotato (la kenosis), si è fatto obbediente fino alla croce (cfr Filippesi 2,5-11). In Cristo Dio ci ha testimoniato che si può perdere l’amore per amore, per questo Gesù era celibe: aveva totalmente perso l’amore, ma per amore! In quel suo celibato, in quella sua perdita, non si sentiva come se avesse qualcosa in meno, perché aveva la pienezza dell’amore. Per questo è libero: si fa baciare i piedi da una donna, si lascia abbracciare da Maria di Magdala, manda i suoi discepoli a Gerusalemme e lui se ne va a Betania da Marta e Maria che avevano bisogno della sua presenza… Ecco, se i preti imparassero a essere amore, a perdere l’amore per amore, lì troverebbero il senso del loro celibato. Se i preti oggi potessero sposarsi, io sceglierei il celibato, perché direi che il prezzo dell’amore è perdere l’amore. Se posso fare un confronto (oso farlo!), direi: i due elementi costitutivi della Messa, di questo grande mistero, sono la Parola di Dio e l’Eucaristia, le due mense. Ecco, io penso che la famiglia fondata sul matrimonio sia la Parola di Dio per eccellenza (l’ha detto Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio, al numero 12), perché lì Dio si rivela, è la Bibbia di carne dell’oggi di Dio. Invece, l’Eucaristia è il darsi di Dio, che annulla se stesso, si abbrevia: questo è il sacerdozio».
- Dal punto di vista pastorale, cosa si potrebbe fare per migliorare, rendere più feconda questa relazione presbiteri-sposi nelle nostre comunità?
«Per me è importante che un vescovo affidi i suoi sacerdoti a delle famiglie: è fondamentale. Non solo: il sacerdote deve scendere dalla cattedra, alle volte è l’incapacità alla relazione che crea la distanza. Si dovrebbe educare alla relazione già negli anni di seminario. Ad esempio, i miei diaconi, nell’anno che separa dall’ordinazione presbiterale, passano un giorno intero alla settimana con me, dalle lodi del mattino fino alla compieta. La sera, siccome mangiano con me, li porto sempre da una coppia di sposi, una delle coppie con cui io sono cresciuto come prete, e che io ho fatto crescere, fin da quando erano fidanzati. E la relazione che si crea tra questi diaconi e queste coppie è bellissima: gli sposi vengono all’ordinazione, quasi li prendono in custodia… Allora i miei giovani preti crescono con l’idea che hanno bisogno della famiglia, per fare della loro parrocchia una famiglia di famiglie».
- Quindi saper vedere la famiglia, sapere vederla anche attraverso gli “occhiali” del proprio ministero…
«Non solo, si tratta di saper dare alla famiglia il posto giusto: la famiglia è protagonista della pastorale. Io nella mia curia non ho preti, li ho mandati tutti in parrocchia, ho preso una coppia di fidanzati, lei è la segretaria della curia, lui era il mio segretario (ora sono sposati e hanno un bambino), e poi ho due diaconi permanenti, due altri laici che lavorano negli uffici, e così c’è un clima proprio di famiglia! I miei preti vengono e stanno bene, perché non c’è un ambiente burocratico, di scartoffie, gli viene offerto il caffè… c’è proprio un clima di famiglia, e questo è bello: loro lo vedono, e capiscono che è possibile farlo anche in parrocchia».
Don Paolo Ciotti, presbitero della diocesi di Milano, è docente di psicologia della religione e consulente familiare.
- Don Paolo, in questi giorni si è parlato moltissimo della relazione tra presbiteri e sposi, denunciando il fatto che spesso ci sono barriere, separazioni: queste barriere possono avere risvolti psicologici, su cui bisogna lavorare?
«Siccome il Cristianesimo è una religione dell’incarnazione, tutti i bellissimi discorsi di questi giorni, che ci hanno fatto riscoprire la profondità teologica delle relazioni trinitarie e di quelle familiari, per essere testimonianza vissuta richiedono una concretizzazione nelle relazioni umane. Quindi, certamente ci sono degli influssi psicologici, c’è una dimensione psicologica relazionale, storica, nella quale deve tradursi tutto questo patrimonio della rivelazione. Una dimensione psicologica che però non è appannaggio solo della psicologia accademica o professionale, ma piuttosto è parte di quella crescita spirituale che completa tutto l’uomo nella sua anima, nella sua psiche e anche nel suo corpo».
- E questa intesa, questa relazione si può o si deve giocare anche nei suoi risvolti più quotidiani, più feriali, legati alle cose minime che avvengono in una famiglia, dal bambino piccolo da cambiare, fino alle crisi degli adolescenti… in tutto questo il presbitero può e deve interagire?
«Penso che questo sia proprio il punto di partenza, non riflesso: quando un prete si trova bene, tra virgolette, con delle coppie, con delle famiglie, quando apre gli occhi e osserva la vita concreta, quotidiana è lì che scatta quella empatia, quella capacità di vedere nella vita dell’altro, nella vocazione dell’altro un riflesso della propria ed un riflesso dell’unica vocazione alla santità. E quindi penso proprio che sia da questa condivisione che parte in genere la sensibilità – sia negli sposi sia nei preti che ne fanno esperienza – e il desiderio di appropriarsi più profondamente della propria vocazione. Poi, tutto questo lavoro di approfondimento teologico, spirituale, comunitario deve certamente condurre nuovamente alla comune vocazione a vivere l’amore di Cristo, perché questa sia la dimensione che splende e che viene comunicata a tutti gli altri…»
- Ecco, in quanto a comunicare agli altri tutto questo, una bella (in senso biblico) relazione presbiteri-sposi può davvero aiutare a presentare un volto di Chiesa più attraente per l’uomo di oggi?
«Certamente! L’auspicio è questo, e se riusciremo a vivere una dimensione pienamente umana del nostro essere persone e del nostro essere in relazione, attingendo alla forza dell’amore di Cristo questo certamente renderà il volto della Chiesa meno rugoso e più splendente. Questo è il compito che ci sta davanti».