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mercoledì 13 novembre 2024
 
 
Benessere

Quando i farmaci sono inutili e dannosi

03/01/2018  I medicinali sono importantissimi per migliorare la qualità di vita dei pazienti, ma nessuno di essi è davvero innocuo. 91 sostanze autorizzate nell’Unione europea e appartenenti a diverse categorie, secondo uno studio, possono compromettere lo stato di salute con effetti indesiderati gravi o gravissimi

Spesso inutili, talvolta dannosi. Per molti farmaci, il rapporto tra rischio e beneficio potrebbe essere sbilanciato a favore del primo, soprattutto quando l’uso viene fatto in maniera incauta, impropria, senza una reale necessità. A condannare un medicinale può essere il monitoraggio continuo sulla sua sicurezza, che comporta sempre una possibile eliminazione dal mercato qualora emergano effetti indesiderati gravi prima sconosciuti, ma anche studi e ricerche – sovente condotti da professionisti e ricercatori indipendenti – da cui, periodicamente, emergono verdetti severi.

Fra i giudizi meno rassicuranti c’è quello della rivista francese di informazione scientifica Prescrire, che ogni febbraio (ormai da cinque anni) pubblica un elenco di medicinali pericolosi, da cui stare alla larga, indicando anche le alternative meno nocive con cui sostituirli.

Nell’ultimo report, datato 2017, vengono passate al setaccio 91 sostanze autorizzate nell’Unione europea e appartenenti a diverse categorie (antinfiammatori, antidepressivi, antidolorifici, oncologici, cardiovascolari...) che, stando alla ricerca, non soltanto sono inefficaci ma possono aggravare lo stato di salute con effetti indesiderati gravi, se non gravissimi.

Sempre in Francia, pochi anni fa, due rinomati medici (Philippe Even e Bernard Debré) avevano fatto scalpore con un libro accusa – intitolato Guide des 4.000 médicaments utiles, inutiles ou dangereux (Guida a 4.000 medicinali utili, inutili e dannosi) – dove veniva messa in luce una criticità delle sperimentazioni cliniche sui farmaci, spesso “viziate” da un fenomeno – definito under reporting – che consiste nella parziale pubblicazione dei dati raccolti, determinando una sottostima degli effetti avversi e una sovrastima dell’efficacia.

Non a caso, esiste una petizione internazionale (da sottoscrivere sul sito www.alltrials.net e supportata da numerose organizzazioni sanitarie a livello mondiale), che chiede a gran voce la registrazione di qualsiasi sperimentazione clinica (trial) presso un ente pubblico indipendente, riportando integralmente metodi e risultati. Una richiesta più che lecita, tenendo conto che solo ad aprile 2017 la percentuale di trial non pubblicati risultava pari al 45,2 per cento.

Ma allora, curarsi è peggio della malattia stessa? «Non esistono farmaci innocui, perché ciascuno di essi comporta la possibilità di sviluppare effetti collaterali più o meno marcati, più o meno gravi, più o meno conosciuti: in un certo senso, è il prezzo che accettiamo di pagare per ottenere un beneficio, di norma superiore al rischio», spiega il professor Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri” di Milano (www.marionegri.it) e collaboratore di BenEssere.

Ovviamente, a seconda di numerosi parametri personali, come età, peso, altezza, composizione corporea e metabolismo, ogni preparato può esercitare azioni diverse sui vari individui, risultando ben tollerato in alcuni soggetti e determinando invece qualche problema in altri. «Gli inglesi parlano di expected side effects quando gli effetti avversi sono noti e indicati sul foglietto illustrativo, mentre gli unexpected side effects sono le reazioni inaspettate, non sempre facili da correlare all’assunzione».

Di fatto, non è così semplice dimostrare la tossicità di un farmaco, perché durante un trattamento medico possono verificarsi eventi avversi che non necessariamente hanno una correlazione di causa-effetto. Come dire che, se dopo aver ingerito una statina compare un brutto mal di denti, è complicato provarne il legame, perché l’odontalgia potrebbe essere indipendente dal farmaco.

ATTENZIONE AI MIX

A tutto questo, si aggiunge un altro problema. Solo in Italia, quasi un milione e mezzo di anziani assume ogni giorno dieci o più farmaci e qualche migliaio di over 75 (trattati per ipertensione, iperlipidemia o diabete) ha sperimentato almeno un episodio di doppia prescrizione, involontaria, di due sostanze identiche consigliate da due medici diversi, con il risultato di un sovradosaggio.

«La politerapia, ovvero l’assunzione concomitante di più farmaci della stessa o di diverse aree terapeutiche, rappresenta un altro pericolo da non sottovalutare, perché tra i vari principi attivi si possono creare interazioni capaci di determinare una risposta clinica diversa da quella attesa», riferisce il professor Garattini. «Così, soprattutto nei pazienti più fragili, l’azione dei singoli medicinali può risultare ridotta, amplificata oppure si verifica una reazione nuova e inaspettata. Per non parlare dell’aumentato rischio di confusione tra pastiglie e pastigliette, con il risultato di una mancata aderenza alla terapia».

Un’indagine condotta presso l’University of Illinois at Chicago (Stati Uniti) e pubblicata sulla rivista Jama internal medicine ha definito questo mix “potenzialmente fatale”, mentre un altro studio, pubblicato sul Journal of american geriatrics society, ha mostrato come la politerapia possa determinare nel sistema nervoso centrale cambiamenti tali da influenzare addirittura la capacità di camminare del paziente, che diminuisce e rallenta.

FILTRARE LE NOTIZIE

  

In definitiva, nessun farmaco è completamente sicuro, anche se sostenuto da risultati incoraggianti e da un utilizzo consolidato. In fondo, gli studi che precedono la sua immissione in commercio si focalizzano soprattutto sui benefici nei confronti di una determinata patologia, più che sull’identificazione degli effetti collaterali (eccetto quelli più frequenti). Per il resto, ogni nuovo medicinale porta con sé una quota di azzardo che si gioca sulla pelle dei pazienti: a dimostrarlo è la cosiddetta farmacovigilanza, cioè l’osservazione degli effetti a lungo termine che viene fatta sui medicinali già in commercio e che talvolta può condurre al loro ritiro dal mercato per motivi di sicurezza o inefficacia.

«Al momento, gli effetti collaterali non vengono individuati da ricerche specifiche, ma sono raccolti sulla base di segnalazioni spontanee, effettuate da cittadini e operatori sanitari che si trovano di fronte a un evento avverso», chiarisce Garattini. «A mio parere, sarebbe utile una farmacovigilanza diversa, attiva, continua e gestita a livello centrale, per ricercare e valutare la tossicità dei medicinali con gli stessi principi scientifici con cui se ne valutano i benefici». E allo stesso modo, a parere del professore, sarebbe utile una revisione del Prontuario farmaceutico nazionale, l’elenco dei medicinali commercializzati in Italia che consente a medici e farmacisti di prescrivere o dispensare le terapie in maniera informata, con l’indicazione di quelli rimborsabili (oggi circa novemila) e quelli a carico del cittadino (circa settemila).

«L’ultimo aggiornamento risale al 1993», illustra Garattini. «Nel frattempo, sono stati introdotti nuovi farmaci e altri sono usciti dal prontuario: forse varrebbe la pena ristabilire quali possono essere dispensati dal Servizio sanitario nazionale e quali no, perché dimostrare la sicurezza dei medicinali rimborsabili è una responsabilità dell’Agenzia italiana del farmaco, l’autorità nazionale competente in questo settore».

Nel frattempo, che cosa fare? Ovviamente, il paziente non ha le competenze necessarie per destreggiarsi nel settore e rischia di cadere in falsi allarmismi o, al contrario, di sottovalutare il rischio.

Ad esempio, un recente allarme – lanciato da una meta-analisi condotta su oltre 446 mila individui e pubblicata sul British medical journal – sostiene che gli antinfiammatori non steroidei (Fans) aumentano il rischio di infarto miocardico, stimato in +24 per cento per il celecoxib, +48 per cento per l’ibuprofene, +50 per cento per il diclofenac, +53 per cento per il naprossene e +58 per cento per il rofecoxib, quest’ultimo ritirato dal commercio in Italia dal settembre 2004. Quindi, come comportarsi? Il pericolo vale per tutti? Con quali cure sostituire quelle sospette?

LE REGOLE DA SEGUIRE

«Il medico di fiducia deve essere il primo referente quando si decide di assumere un farmaco, anche se da banco», consiglia Garattini. «Se i possibili effetti collaterali sono inferiori e più blandi in caso di medicinali per cui non occorre una prescrizione, per qualsiasi cura è consigliabile la supervisione di uno specialista, l’unico autorizzato a valutare se il beneficio è superiore al rischio, considerate anche le condizioni fisiche e di salute individuali».

Quindi, le regole d’oro per un uso corretto e sicuro dei farmaci sono:

►non recarsi dal medico con l’idea di ricevere per forza una cura; non sempre uno specialista che prescrive molti medicinali è migliore rispetto a chi è “parsimonioso”, spesso vale il contrario, perché dimostra di rispettare un antico precetto, attribuito al medico e filosofo greco Galeno, primum non nocere (“per prima cosa, non nuocere”), che in sostanza chiede agli operatori sanitari di vagliare di volta in volta la possibilità che la terapia possa compromettere la salute più di quanto non faccia il male stesso; meglio dunque non pressare per ricevere cure, spesso non necessarie;

►cambiare lo stile di vita; spesso si ricorre al medico per problemi che potrebbero essere risolti con una correzione delle abitudini quotidiane, mangiare in maniera sana e praticare una regolare attività fisica incidono sui principali parametri vitali e prevengono molte patologie dell’epoca moderna;

►riferire gli eventuali disturbi apparsi durante la terapia. Oltre che al proprio medico curante, il quale potrà provvedere alla sostituzione con un altro medicinale, gli effetti collaterali vanno segnalati all’Agenzia italiana del farmaco, tramite il sito www.vigifarmaco.it.

«È logico che, trattandosi di una sostanza chimica, il medicinale non vada a colpire solamente un bersaglio, ma si distribuisca nei vari tessuti con la possibilità di determinare un danno», conclude Garattini. «Solo una stretta collaborazione fra pazienti e operatori della salute potrà condurre in futuro alla messa in commercio di terapie sempre più efficaci e sicure».

QUALI SONO LE FASI PER FAR ENTRARE UN FARMACO IN COMMERCIO

  

Prima di entrare in commercio, ogni farmaco deve subire una lunga serie di studi, che talvolta possono durare oltre dieci anni. Dopo una fase preclinica svolta in laboratorio e puramente teorica, che deve stabilire sicurezza e tollerabilità (almeno ipotetiche) mediante test in vitro su cellule e poi in vivo sugli animali, si passa a quella clinica sull’uomo.

FASE 1. Il prodotto viene somministrato a circa 60-80 volontari sani, informati e rigorosamente seguiti dai medici, per verificare la sicurezza del medicinale e l’assenza di effetti collaterali gravi.

FASE 2. In specifici centri ospedalieri, il prodotto viene somministrato a un gruppo di soggetti malati informati, per avere una prima idea sulla sua efficacia.

FASE 3. Confermata la sicurezza del prodotto, viene coinvolto un numero sempre maggiore di pazienti informati, nell’ordine di qualche migliaio, presso centri e ospedali specializzati. Così, si valutano la posologia (quantità di prodotto da somministrare), le varie formulazioni (pillole, supposte, sciroppi, iniezioni o altro), le possibili reazioni avverse e soprattutto la comparazione con altri farmaci aventi la stessa indicazione.

FASE 4. Il prodotto arriva nelle farmacie, ma continua a essere monitorato. Dal 2002, il ministero della Salute ha attivato la cosiddetta farmacovigilanza, cioè l’osservazione degli effetti a lungo termine, quando i medicinali sono già in commercio.

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