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Un anno di buio, di isolamento, di attesa. Un anno in cui un uomo che ha dedicato la vita ad aiutare gli altri è diventato lui stesso un ostaggio della politica. Alberto Trentini, cooperante italiano detenuto in Venezuela dal 15 novembre 2024, è il simbolo di una pratica crudele: la ‘diplomazia degli ostaggi’, una strategia che trasforma vite umane in moneta di scambio. Ora, per la prima volta, 39 eurodeputati di ogni schieramento si uniscono in un appello bipartisan per chiedere la sua liberazione. Ma perché il caso di Alberto, un uomo innocente, sembra non smuovere abbastanza coscienze?
Il caso Trentini: un anno di detenzione arbitraria
Alberto Trentini, 46 anni, originario del Lido di Venezia, è un cooperante con oltre vent’anni di esperienza in contesti di crisi: dall’Etiopia al Perù, dalla Colombia al Libano. Il 15 novembre 2024, mentre lavorava per l’Ong Humanity & Inclusion a supporto delle persone con disabilità in Venezuela, è stato fermato a un posto di blocco e trasferito nel carcere di El Rodeo, vicino a Caracas. Da allora, non gli è stata contestata alcuna accusa formale, ma solo dopo mesi le autorità venezuelane hanno parlato di “terrorismo”, senza fornire prove o dettagli. La sua detenzione rientra nella cosiddetta “economia degli ostaggi”, una pratica del regime di Nicolás Maduro che usa i detenuti stranieri come leva per ottenere concessioni politiche o economiche dai governi occidentali.
Alberto non è un turista, né un avventuriero. È un professionista della cooperazione internazionale, laureato in Storia a Ca’ Foscari e specializzato in ingegneria sanitaria. Ha lavorato in Ecuador, Etiopia, Nepal, Grecia, Perù, Libano, sempre al fianco dei più vulnerabili. In Venezuela, era arrivato per coordinare progetti di assistenza umanitaria. Il suo arresto, avvenuto senza motivo apparente, ha scatenato l’indignazione della comunità internazionale e delle Ong, che denunciano una violazione dei diritti umani e del diritto internazionale.


Gli appelli della madre: “Non stancatevi di parlare di lui”
Armanda Colusso, la madre di Alberto, ha rotto il silenzio imposto dalle istituzioni e lanciato appelli accorati ai media, al governo e alla società civile. «Un anno senza il mio Alberto è un anno di attesa insopportabile. Ha dedicato la vita agli altri, ora è lui ad aver bisogno di voi», ha scritto in una lettera pubblica. La famiglia ha denunciato l’immobilismo del governo italiano, che solo dopo mesi ha nominato un inviato speciale per i detenuti in Venezuela, Luigi Maria Vignali. «Non si è fatto abbastanza», ha affermato Armanda, sottolineando che solo una forte pressione mediatica e diplomatica può portare alla liberazione del figlio.
L’appello bipartisan degli eurodeputati: un segnale di speranza?
Il 26 novembre 2025, 39 eurodeputati italiani – da PD a FDI, passando per M5S e AVS – hanno firmato un appello congiunto per chiedere la liberazione di Alberto. “Chiediamo un atto di umanità: la liberazione di Alberto Trentini. Un gesto di clemenza in un momento di tensioni regionali avrebbe un significato profondo, come segnale di volontà dialogante e di pace”, si legge nel testo. L’appello, trasversale e bipartisan, è un fatto raro e sottolinea l’urgenza di agire. Ma sarà sufficiente a smuovere il regime di Maduro?
La “diplomazia degli ostaggi”: un sistema che non risparmia nessuno
Il caso di Alberto non è isolato. In Venezuela, una quindicina di italiani sono detenuti in condizioni simili, spesso senza accuse o processo. La “diplomazia degli ostaggi” è una pratica consolidata: il regime usa i detenuti stranieri come merce di scambio per ottenere vantaggi politici o economici. Come nel caso di Cecilia Sala, liberata dall’Iran dopo una forte mobilitazione, anche per Alberto serve una strategia chiara e decisa, che unisca diplomazia, pressione mediatica e impegno della società civile.
La storia di Alberto Trentini ci interroga tutti. Non è solo la vicenda di un cooperante detenuto ingiustamente, ma il simbolo di una battaglia per la dignità umana e i diritti fondamentali. Ogni giorno di detenzione è una ferita aperta per la sua famiglia e per chi crede nella giustizia. La mobilitazione non deve fermarsi: parlare di Alberto, condividere la sua storia, chiedere alle istituzioni di agire con determinazione è il minimo che possiamo fare per non lasciarlo solo. Alberto ha speso la sua vita per gli altri. Ora tocca a noi spendere la nostra voce per lui.




