«La partenza dei giovani italiani verso l’estero non è necessariamente un male: è crescita, è opportunità, è apertura. Il problema è la non circolarità di questa uscita: si va ma non si torna, si formano persone qualificate, ma le si lascia a produrre altrove, senza attirarne altre altrettanto qualificate o senza dare dopo un periodo all’estero una reale opportunità di progettare un rientro in Italia». Quando i migranti siamo noi, uno dei problemi è questo. Delfina Licata, da 13 anni curatrice del Rapporto della fondazione Migrantes che approfondisce il tema degli Italiani nel mondo, tiene a precisare questo aspetto, prima di rispondere alle nostre domande.
L’abbiamo interpellata per capire che cosa si nasconde dietro i numeri.
Dottoressa Licata, il dato dei giovani italiani che vanno all’estero, sensibilmente cresciuto negli ultimi cinque anni, sta crescendo ancora?
«Non sono ancora in condizioni di dare dati tuttora in elaborazione, ma posso dire di sicuro che le partenze degli Under 50 non si stanno arrestando, ed è giusto dire che non si tratta soltanto di “cervelli”, di persone super qualificate, ma anche di semplici laureati e semplici diplomati che a volte trovano un lavoro corrispondente alle loro aspettative altre volte si adattano a fare i camerieri o i commessi, nonostante la laurea».
Quando si adattano perché lo fanno, perché in Italia non trovavano neppure quello o per altre ragioni?
«A volte proprio perché non trovavano neppure un lavoro qualsiasi, ma il più delle volte perché all’estero hanno trovato la parola magica che ricorre nelle interviste che facciamo a queste persone: “meritocrazia”. E vale quando si fa il ricercatore e quando si fa il netturbino, su tutta la scala. In parole povere si fugge dalla logica del familismo, del bisogno della raccomandazione, della scarsa trasparenza. Ti dicono: qui almeno ce la faccio con le mie forze, posso crescere e magari passare da cameriere semplice a responsabile di sala».
Nel rapporto si parla anche di chi accetta lavoro agricolo, che cosa li convince?
«Abbiamo studiato il caso dell’Australia dove troviamo italiani che pur di avere il secondo visto che consente la permanenza, accettano di lavorare 88 giorni nelle farms: lavoro agricolo, paragonabile per fatica a quello di chi da noi viene a raccogliere pomodori, con la differenza però che il contratto lì è regolare e il compenso equo. Poi certo non mancano le esperienze di migrazione fallita. Ci sono anche coloro che non ce la fanno, che finiscono in depressione, che si trovano senza casa e senza lavoro, ma il loro numero per ora non è quantificabile, potrebbe essere lo spunto di una prossima ricerca».
I numeri sono elaborati, partendo dall’Aire, presumono dunque la cancellazione dall’iscrizione all’anagrafe. Vuol dire che c’è una “cifra nera”, una parte di migranti italiani all’estero che sfugge alla statistica?
«Sicuramente sì. Il dato degli under 34 non registra in genere gli studenti, che muovendosi in Erasmus o per periodi limitati, restano residenti in Italia. Mentre gli 11.000 bambini al di sotto dei 10 anni che nel 2017 sono andati all’estero, sono quelli che partono con i genitori, dato che indica lo spostamento di intere famiglie: giovani genitori con figli piccoli e… dato che ci ha incuriosito a volte nonni».
Anche i nonni?
«A volte sì, anche se numericamente meno significativa di quello dei giovani, la migrazione degli italiani che hanno superato i 50 anni è un dato che merita di essere rilevato».
Chi sono , perché lo fanno?
«A volte sono proprio nonni, che si ricongiungono a figli e nipoti all’estero per dare una mano ai genitori che lavorano e per ritrovare la continuità dei legami familiari. Poi ci sono altre tre categorie: una è quella di chi ha una buona pensione e fa una scelta di pura qualità di vita, sceglie cioè un posto che apprezza per il clima e per la qualità della vita e va. Ma anche di chi cerca di ottimizzare la resa della propria pensione magari non lauta: è il caso di molti pensionati italiani che fissano per parte dell’anno la residenza in Portogallo, dove c’è una forte agevolazione fiscale, un costo della vita inferiore e la possibilità di stipulare assicurazioni sanitarie con buona copertura ma economicamente molto vantaggiose. Poi c’i sono i casi più traumatici, quello di coloro che a 50 anni hanno perso il lavoro, non ne trovano un altro in Italia e si adattano ad andare altrove, anche perché hanno una famiglia da mantenere, con figli studenti o disoccupati, ma non hanno maturato ancora una pensione e cercano di arrivarci trasferendosi. E quello dei cosiddetti migranti di rimbalzo. Italiani emigrati molti anni fa, che dopo aver lavorato e cresciuto figli all'estero, tornano all'età della pensione, ma poi non riconoscono più l'Italia che hanno lasciato da giovani e ripartono per riavvicinarsi ai figli».
Vuol dire il fattore famiglia è spesso decisivo?
«Sì, è una caratteristica positiva dell'Italia, la famiglia è il nostro elemento forte, significativo nel determinare le scelte di vita»