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Quattro fratelli infermieri in prima linea contro il Covid: "Abbiamo imparato in casa che aiutare dà senso alla vita"

12/05/2020  Il 12 maggio è la giornata mondiale degli infermieri, ricordata stamattina anche dal Papa. Nel dossier le storie che abbiamo raccolto in questi mesi, a partire da quella dei fratelli Mautone. Sono in quattro, tutti infermieri: "Lo scafandro protegge certo, ma lì dentro si suda e ci si commuove. Il timore del contagio c'è, in famiglia però ci hanno insegnato a non scappare mai"

C’è un titolo di Xavier Marìas che torna tanto nelle metafore di questi giorni: Domani nella battaglia pensa a me. Ma non è così che funziona: nella battaglia bisogna restare concentrati, per non sbagliare niente, a costo dimenticare la pipì che scappa e il naso che prude. Un errore nello svestirsi o nello “slavarsi”, come vuole il gergo della chirurgia, potrebbe essere il cavallo di troia che fa entrare il nemico. In un modo o nell’altro i fratelli Mautone, quattro infermieri, come papà Giorgio, con mariti e mogli infermieri cosa che tra turni e rischi complica ulteriormente la quotidianità, lo dicono tutti: la paura è quella, fare un passo falso e portarsi il virus a casa. Lo scafandro di mascherine, cuffie, guanti, camici, sopracamici, calzari è una difesa e una barriera. Li fa sembrare tutti Robocop lì sotto, ma sono umanissimi e non è solo al virus che la barriera fa scudo. Filtra, nel bene e nel male, anche i sentimenti, tornati in gioco come mai prima nella battaglia quotidiana contro il Covid-19, che da qualche mese ha stravolto il lavoro e la vita di tutti. Valerio, 44 anni, fino al 9 marzo era strumentista nella sala operatoria della Neurochirurgia del Sant’Anna di Como: «Quando la sala è stata riservata alle sole urgenze indifferibili per colpa del Covid, mi è venuto naturale dare la mia disponibilità a passare alla terapia intensiva Covid», racconta appena smontato dalla notte in una video chiamata whatsapp, mentre le sue manone accarezzano un micetto di poche settimane, «prima di passare strumenti ai chirurghi sono stato anni alla recovering room, dove si portano i pazienti appena usciti dalla sala operatoria e in neurochirurgia la metà dei pazienti sono “pronati”, intubati supini e poi spostati in posizione prona, come quelli che finiscono in rianimazione con il Covid. Conoscevo la manovra che serve a girarli ogni 12 ore e poi dopo altre 6, come evitare i decubiti. La fatica fisica è tantissima, la maggior parte dei pazienti sono maschi, non tutti ma la metà superano i 100 chili. Muoverli così spesso è impegnativo. Ma per me, che a differenza dei colleghi di rianimazione, in sala operatoria non ho abitudine al rapporto con il paziente, si tratta anche di gestire la componente emotiva: il Covid per chi si ammala è paura e solitudine e qualche volta davanti a certi drammi una lacrima scappa anche a me, per fortuna lo scafandro aiuta a scambiarla per sudore, copre agli occhi del paziente la nostra fragilità. Ma è bellissimo, poi, quando chi ce la fa ti chiede che giorno è e un telefono per chiamare la moglie, la mamma il figlio e dopo ti cerca su facebook, per ringraziarti perché sull’orlo del suo baratro ha avuto solo te. Un’esperienza nuova per me che ripaga degli sforzi e delle ansie».

Qualche ora dopo in un’altra chiamata, Maria, due figli, l’ultima dei quattro, anche lei al Sant’Anna di Como, Chirurgia generale, convertita in reparto Covid, riprende il filo lasciato sospeso da Valerio: «All’inizio è stato difficile, io che ho sempre fatto del sorriso la mia arma di empatia ci ho messo un attimo a far arrivare ai pazienti il sorriso degli occhi. I primi giorni avevo e paura, non avevo mai trattato infettivi: l’istinto diceva non voglio andare. Ma mi sono ricordata di quando da bambina, in un quartiere difficile di Napoli, non volevo scendere per timore degli scugnizzielli che facevano i bulli: mia madre mi ha insegnato lì che le paure si affrontano, spingendomi a scendere a testa alta, mentre mi teneva d’occhio dal balcone. Ogni giorno quella lezione torna, una volta vestita resta solo la professionalità. Ma quando finisco resto a lungo sotto la doccia dell’ospedale per lavare via tutto fisicamente e psicologicamente».

Fino al 2012 anche Stefania, una figlia di 10 mesi, ha lavorato con loro: «Poi ho scelto di mettere a frutto la professionalità imparata al Nord tornando a Napoli: se tutti quelli che credono nel rispetto delle regole se ne vanno questa città non si riscatterà mai. Lavoro in una clinica di Vincenziane, mi occupo dei sette letti destinati ai pazienti con sospetto di Covid, nella fase in cui attendono la diagnosi, se sono positivi li mandiamo al Cotugno. Sul lavoro i colleghi», confessa spalancando una risata aperta «mi chiamano il “generale”, per il rigore, ma credo che sia giusto così. Fuori dal lavoro faccio parte della Onlus che si occupa di ragazzi disagiati e donne maltrattate in due sedi confiscate alla Camorra: nel ritorno ha inciso quella frase del sacerdote che mi ha detto mentre partivo: “Napoli ha ancora bisogno di te”».

E forse anche di più l’essere cresciuti con papà Giorgio, infermiere per 40 anni e mamma, sarta che oggi cuce, mascherine per il quartiere, che hanno trasmesso sani principi e l’idea che un lavoro di cura dà senso alla vita. Il primo a capirlo è stato Raffaele il più grande, infermiere specializzato in pazienti cardiologici al Cardiocentro di Lugano: «Abbiamo anche noi pazienti Covid, perché chi ha problemi cardiaci se si infetta è più a rischio, ma io non sono in prima linea come i miei fratelli, di cui sono orgoglioso, anche se ho una moglie che lavora in ospedale anche lei ed è già capitato che finissimo in isolamento in attesa del tampone: i nostri tre figli, 16, 15 e 10 anni, hanno dovuto crescere in fretta, rendersi autonomi in cucina dove noi per sicurezza non potevamo entrare». Perché la paura vera è quella, portare il nemico a chi si ama attraverso un gesto d’amore.

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