Verso la fine di luglio del 1941, nel lager nazista di Oswiecim – ribattezzato dai tedeschi Auschwitz – avvenne un fatto unico nella storia di quel campo di sterminio e a raccontarmelo, nel 1971, fu proprio uno dei due protagonisti. Era successo che un detenuto era riuscito a fuggire e secondo una disposizione vigente allora, dieci suoi colleghi vennero condannati a morire di fame in uno dei “block” in cui era suddiviso il lager.
Tra questi c’era anche un padre di famiglia, Francesco Gajowniczek, che quando sentì pronunciare il suo nome nella lista dei dieci si mise a piangere pensando a sua moglie e ai suoi due bambini che non avrebbe più rivisto. Ma fu salvato perché un frate francescano, padre Massimiliano Kolbe, si offrì di morire al suo posto e il suo sacrificio fu accettato.
Nel 1971, poiché si parlava della prossima beatificazione dell’eroico frate, mi recai in Polonia per raccontare l’episodio su Famiglia Cristiana e i frati di Varsavia mi accompagnarono a Grzeb, un piccolo centro della Slesia, dove conobbi Francesco Gajowniczek, l’uomo salvato da padre Kolbe, e con lui raggiungemmo Oswiecim
Francesco Gajowniczek nella stanza del forno di Auschwitz dove venne cremato padre Kolbe.
UNA STORIA INCREDIBILE
La sua storia ha dell’incredibile: quando militava nell’esercito partigiano, nel luglio 1941 era stato condannato a morte per il tradimento di un delatore, ma dopo essere stato messo al muro per circa tre ore davanti ai plotoni di esecuzione, era arrivato un misterioso “contrordine” ed era stato liberato. Ma non era finita la sua avventura: salvato da padre Kolbe, rimanendo nel lager si era ammalato di tifo ed era stato mandato in ospedale per essere eliminato.
Ma l’unico medico polacco del lager, prigioniero egli stesso, era un suo amico d’infanzia; lo nascose nella propria stanza e lo guarì. Durante la ritirata, i tedeschi si trascinavano dietro i prigionieri, molti dei quali morivano di stenti durante la lunga marcia e altri venivano fucilati nei boschi. Lui riuscì a fuggire con altri ventidue compagni, ma furono nuovamente accerchiati e Francesco anche stavolta si salvò insieme con un altro detenuto.
Quando ci stavamo recando a Oswiecim mi disse: «Ci sono tornato unicamente per l’affetto e la riconoscenza che sento verso Massimiliano Kolbe. Però facciamo in fretta, ogni minuto qui per me è tremendo».
Oggi quello che fu il campo di concentramento in cui morirono milioni di persone (in maggioranza ebrei) è stato trasformato in un museo permanente. All’ingresso si legge tuttora una scritta in tedesco a caratteri di ferro: Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi. «Sì», fu il commento di Francesco, «ma liberi di crepare». Ci fermammo davanti al block numero 14: «Era il nostro», aggiunse: «Un corridoio centrale, con due grandi stanzoni ai lati, nei quali si dormiva in cuccette di legno incastellate a gruppi di tre una sull’altra. Vi si trovavano quelli che erano addetti ai lavori agricoli».
Lui era stato tradotto ad Auschwitz l’8 novembre 1940, il santo frate vi sarebbe giunto il 28 maggio 1941. Non si conoscevano, ma Francesco, senza sapere chi fosse lo aveva visto vittima di una scena raccapricciante: «Una mattina», mi raccontò, «stavo scavando il letame da una fossa per portarlo nei campi. Arrivò una guardia con un cane e domandò al prigioniero che riceveva il letame e lo buttava fuori perché ne caricasse così poco, e senza dargli il tempo di rispondere cominciò a bastonarlo e ad aizzargli contro il cane, che lo morse ripetutamente. Ma l’altro se ne stava calmo, senza lasciarsi sfuggire un lamento. In tedesco disse anzi di essere un sacerdote, il che fece andare in bestia l’aguzzino che lo colpì ancor più duramente. Dopo la morte del frate, che fece notizia in tutto il lager, rievocando l’episodio con alcuni amici, venni a sapere che quel prigioniero era proprio Kolbe».
Verso il 28 o il 29 luglio, il francescano fu trasferito nel block 14 e dopo alcuni giorni avvenne il fatto decisivo: un prigioniero di quello stesso block era riuscito a fuggire e per rappresaglia tra i suoi compagni ne vennero scelti dieci, che furono condannati a morire di fame in un bunker sotterraneo. Fu una giornata terribile: per circa tre ore rimasero sull’attenti fino alle tre del pomeriggio, sotto un sole cocente, poi non fu data loro la cena e le loro razioni di cibo furono gettate. Il giorno dopo, visto che il fuggitivo non era stato rintracciato, durante l’appello serale il comandante scelse i dieci condannati, tra i quali Francesco Gajowniczek. Fu allora che padre Kolbe si offrì vittima al suo posto, meravigliando tutti, compresi i nazisti. Il 14 agosto, dopo due settimane, in quel bunker erano ancora vivi in quattro, ma il frate era l’unico in grado di parlare. Pochi minuti dopo furono tutti uccisi con una iniezione di fenolo.
«Devo essere sincero», mi disse Gajowniczek: «Per lungo tempo pensando a Massimiliano provai rimorso. Accettando di essere salvo, avevo firmato la sua condanna. Ma ora, a distanza di anni, mi sono convinto che un uomo come lui non avrebbe potuto agire diversamente. Nessuno l’aveva obbligato a farlo. Inoltre, lui era un prete¸ forse avrà pensato che la sua presenza a fianco dei condannati fosse necessaria per evitare loro il dramma della disperazione. Li ha assistiti fino all’ultimo».
Al ritorno, Gajowniczek mi confidò: «Quando fui liberato, credevo che non sarei riuscito a perdonare. Poi, trovandomi di fronte ai civili tedeschi cacciati da queste terre, vedendo le loro donne con i bambini ho pensato che, se esisteva una differenza tra noi e i criminali, era proprio questa: noi eravamo rimasti uomini, nonostante tutto». Rividi Gajowniczek a Roma in occasione della beatificazione di padre Kolbe il 17 ottobre 1971. Il ricordo di quei giorni in Polonia mi è rimasto indelebile.