Che la prescrizione penale, per come funziona in Italia, rappresenti uno dei fattori disfunzionali del processo è un fatto. Tutti gli altri Paesi, parimenti democratici adottano meccanismi – diversi ma comunque generalmente efficaci - per evitare che i reati si prescrivano in corso di processo, sprecando l’attività giudiziaria già svolta, e frustrando la pretesa punitiva dello Stato. In Italia invece la prescrizione decorre anche in corso di processo fino al giorno della sentenza definitiva. Anche se è corretto dire che può essere fuorviante comparare sistemi penali molto diversi - quali sono quelli in uso nel mondo - in relazione a un solo aspetto.
La prescrizione è un istituto di civiltà giuridica, assodato in democrazia, che esiste essenzialmente per tre ragioni.
1. Quando un fatto è troppo lontano nel tempo, l’interesse dello Stato e della società a vederlo sanzionato affievolisce. Non per caso generalmente si prescrivono prima i reati di minore gravità e, nella maggior parte dei casi, non si prescrivono mai i gravissimi, come l’omicidio volontario aggravato, la strage, i crimini contro l’umanità.
2. Quando lo Stato non interviene a perseguire il reato in tempo utile diventa difficile ricostruire una verità, perché gli anni dilavano le tracce del fatto dalla realtà e dalla memoria delle persone.
3. La fissazione di un termine oltre il quale un reato non può più essere perseguito dovrebbe “sanzionare” l’inerzia dello Stato nell’azione penale: se non si muove per tempo, non può più farlo, anche per evitare che chi ha commesso un reato, anche lieve, si trovi a doverne rendere conto magari dopo quarant’anni quando ormai è una persona diversa e la società non ricorda più.
La cosiddetta riforma Bonafede, approvata prima ma dilazionata e mandata in vigore dal primo gennaio 2020, che ha fatto discutere prima il Governo Giallo-Verde e ora quello Rosso-Giallo, prevede lo stop definitivo della prescrizione dopo la sentenza di primo grado sia essa di assoluzione o di condanna. Ha l'intento di contrastare il fatto -problema tutto italiano - che fino al 31 dicembre 2019, e per i processi riguardanti i reati fin lì commessi, la prescrizione decorre fino all’ultimo giorno del terzo grado di giudizio, consentendo non solo virtualmente, che la pretesa punitiva dello Stato, ampiamente dimostrata con l’effettivo compimento di un processo di primo grado, di appello e di Cassazione, svanisca sul filo di lana negando una risposta alla vittima e alla collettività e vanificando tutte le risorse umane e materiali fin lì impegnate. Va detto anche che i processi che si prescrivono dall'Appello in avanti sono una piccola percentuale, per quanto costosa.
Come molto chiaramente ha spiegato il prof. Gian Luigi Gatta, docente di Diritto penale e direttore del dipartimento di scienze giuridiche all’Università statale di Milano, in un intervento sulla rivista Penale contemporaneo, la proposta, sostenuta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, non è del tutto nuova. Ha un precedente in quella formulata nel 2014 dalla Commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta, anche patrimoniale alla criminalità organizzata (nota come Commissione Gratteri) e ha applicazioni simili (ma non identiche e con previsioni di correttivi nel caso di irragionevole durata del processo) in altri sistemi penali europei, come quello tedesco e austriaco, in cui l’orologio della prescrizione si ferma nel tempo che intercorre tra la sentenza di primo grado e la sentenza definitiva. Mentre in Francia, fissato a 10 anni il termine in caso di inerzia dello Stato, l’orologio riparte da zero ogni volta che un atto di indagine o in corso di processo rimette in moto l’action publique, certificando l’interesse dello Stato.
Nonostante i precedenti la riforma suscita dibattito per ragioni di metodo e di merito, non solo in politica ma anche tra gli addetti ai lavori. La prima preoccupazione riguarda l’impatto su un’altra anomalia italiana (multifattoriale e perciò non risolvibile con un singolo intervento): la lunghezza del processo penale. Da una parte, infatti, la prescrizione - come concepita fin qui in Italia - si presta a utilizzare l’allungamento dei tempi del processo, del tutto legittimamente, come una strategia difensiva (soprattutto per gli imputati che possono economicamente permetterselo) tramite meccanismi dilatori e impugnazioni strumentali, scelte con l’obiettivo di giungere al proscioglimento per prescrizione. E in questo senso la prescrizione probabilmente incentiva, indirettamente, la lunghezza e la farraginosità del processo a danno dell’efficienza del sistema; dall’altra parte lo stop definitivo dopo la sentenza di primo grado potrebbe scoraggiare questo meccanismo e contemporaneamente determinare un allungamento dei tempi in appello e in Cassazione venendo meno la spada di Damocle che oggi spinge lo Stato ad accelerare e a scegliere corsie preferenziali per i processi vicini alla scadenza. Il rischio sarebbe quello che vittime e imputati, dopo una condanna in primo grado, dall'Appello in avanti restino appesi al processo per un tempo potenzialmente infinito.
Ci si domanda, inoltre, quale sarebbe, nel caso, l’impatto della riforma sulle corti d’Appello, nel breve e nel medio periodo, dal momento che si troverebbero a dover definire un numero di procedimenti improvvisamente diverso senza che si sappia con quale diversa distribuzione di risorse. Negli interventi per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2020 si è parlato di una possibilità di aggravio in Appello del 25%.Tanto più che a tutt’oggi nulla si sa dell’impatto della riforma del 2017 che ha sospeso di un tempo fisso (massimo 18 mesi) la prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado e dopo la condanna in appello: non c’è stato il tempo di capirne l’esito, a parte la perplessità degli addetti ai lavori che vedono nell’ancoraggio alla sola sentenza di condanna una sperequazione tra imputati (assolti e condannati in primo grado) di fronte a una sentenza egualmente non definitiva.
Se è indubbia la necessità, forse anche l’urgenza, di trovare un equilibrio tra garanzie, ragionevole durata del processo ed efficienza del sistema, perché una giustizia che non arriva è giustizia denegata, è improbabile che il risultato giunga senza un ragionamento organico sull’impatto della riforma, in relazione agli altri fattori di inefficienza e di lentezza e che non hanno nulla a che fare, né direttamente né indirettamente, con la prescrizione. Tanto più che nel frattempo sono intervenute altre modifiche, sparse in altri interventi legislativi e nel contratto del primo Governo Conte (dalla ripenalizzazione dell'accattonaggio, alla retromarcia sulla geografia giudiziaria, passando per il passo indietro sulla tenuità del fatto e per le restrizioni in materia di rito abbreviato), che in qualche modo vanno in direzione opposta rispetto al dichiarato spirito di efficienza che la riforma Bonafede ha promesso.