Ricordare l’orrore – pensiamo spesso – sostiene il “mai più”: la memoria è educativa, muove alla catarsi. Per questo sono nate le varie giornate dedicate ai tempi più bui della nostra storia. Trent’anni fa, in 100 giorni, si è compiuto in Africa un genocidio dimenticato troppo in fretta: Ruanda, aprile 1994. Pareva una guerra civile tra fazioni politiche. Era il culmine di una persecuzione razziale, la pianificazione di un massacro per eliminare un’etnia di quel Paese. Si è trattato di un genocidio. Un milione di vittime, nella popolazione Tutsi e tra gli Hutu che hanno scelto di stare dalla parte giusta, difendendo gli amici. Dovevano essere cancellati dalla faccia della terra, schiacciato il loro capo come con le serpi e sono purtroppo espressioni ripetute in altri spazi geografici e tempi vicini.
Quel che è accaduto in Ruanda è finito nel fumoso sguardo con cui consideriamo l’Africa tutta, accomunando popoli e culture diverse. È stato oscurato dalla cattiva coscienza di chi allora ha voltato la testa e taciuto o ha sostenuto addirittura gli oppressori, come la Francia, ex potenza coloniale, che non ha trovato il modo di domandare perdono. I Tutsi sopravvissuti hanno agito da soli per scovare i colpevoli, processare, avviare una riconciliazione.
È una terra cristiana e i testimoni non accusano Dio, non attribuiscono a Lui le responsabilità del demonio che ottenebra le menti e i cuori dell’uomo. Hanno ripopolato le chiese, trasformato le fosse comuni in memoriali, hanno ricreato legami. Deprivati di ogni affetto, hanno costituito famiglie d’elezione per sostenersi, ricominciare, per far rinascere il loro Stato. Pare una sfida impossibile, ci riempie di ammirato stupore, per noi che ancora laceriamo la storia passata contrapponendo fratelli e fratelli, senza far tesoro dell’odio intercorso per insegnare ai propri figli “mai più”. Questo anniversario così trascurato fa riflettere anche sull’uso ideologico e impuro di tante manifestazioni di solidarietà, nella comunicazione, nei sit-in di protesta. Ci sono morti che interessano, o meglio servono di più.
Ci sono morti di diversa serie, alcuni per cui sventolare bandiere, altri da nascondere o peggio inglobare tra i carnefici. Ci si indigna, e comprensibilmente, per la tragedia di genti invase e devastate dalla fame e dalla violenza. Ma è ignobile inneggiare ai terroristi come liberatori, dimenticando le torture e l’assassinio di donne e bambini con cui si è scatenata la guerra.
Si infiammano le piazze per condannare ed esigere diritti ma non si sono occupate le università con il sostegno di vecchi supposti maestri per mostrare amicizia, solidarietà alle ragazze iraniane, sbattute in carcere, soggette a percosse, stupri e condanne per un velo sul capo mal indossato, scordando in malafede o ignoranza che chi le perseguita appartiene alla schiera che paga i guerriglieri di Hamas.
Smettete di uccidere i morti, disonorando il loro sacrificio con un ricordo selettivo. «Cessate di uccidere i morti, non gridate più, non gridate se li volete ancora udire, se sperate di non perire. Hanno l’impercettibile sussurro, non fanno più rumore del crescere dell’erba, lieta dove non passa l’uomo» (Giuseppe Ungaretti).