Qualcuno certo ricorderà Alberto Lenzi, il giudice meschino uscito dalla penna di Mimmo Gangemi e portato in Tv da Luca Zingaretti. A un certo punto nell’ultimo romanzo della serie, Il patto del giudice, l’autore fa dire a Lenzi, a proposito di San Michele Arcangelo una cosa strana. Gli fa manifestare la speranza che si decida: «Finalmente a sciogliere il dubbio e togliere dall’impaccio, scegliendo tra ’ndranghetisti e poliziotti – le due categorie sotto protezione – gli ultimi».
Una battuta incomprensibile a chi non sapesse che il romanzo, in questa frase, ironica e cattivella, pesca in un dato storico: San Michele Arcangelo è fuor di dubbio il patrono della Polizia, che non a caso celebra la propria festa proprio il 29 settembre, il giorno di San Michele. Ma c’è del vero anche nella seconda parte della battuta del "giudice meschino": la criminalità organizzata, da sempre, si appropria, nei suoi riti di affiliazione, di simboli religiosi e San Michele ricorre, per così dire tirato per le ali, chiamato come testimone dei riti di ingresso e di passaggio della ‘ndrangheta (ma il meccanismo è analogo per cosa nostra) intrisi di una pseudoliturgia parareligiosa a cominciare dai nomi delle cariche gerarchiche distribuite. Non solo, un’immaginetta dell’Arcangelo Michele bruciacchiata è stata rinvenuta nella tasca di una delle vittime della strage di Duisburg in Germania nel 2007, prova inequivocabile, il santino bruciato, che a migliaia di chilometri dalla Calabria un rito di affiliazione doveva essere avvenuto.
Si tratta di comprendere che cos’abbiano a che fare, fosse anche in un immaginario deviato, i santi con questi riti e perché proprio San Michele sia uno degli oggetti privilegiati di questa devozione a rovescio. In questo ci soccorre un’ordinanza di custodia cautelare emessa nel 1993 a Reggio Calabria, in cui a proposito di riti di affiliazione della ‘ndrangheta si legge: «Bisogna prestare un giuramento in forza del quale il novello santista è obbligato a tradire anche i familiari pur di salvaguardare la “Santa” (la società criminale che si forma ndr.). Sino a sgarrista (un altro dei gradi ndr.) il protettore è San Michele Arcangelo, che rappresenta la giustizia e quindi il rispetto delle regole. Con la santa finiscono giustizia e regole e l’unico fine della nuova struttura è l’autoconservazione a qualunque costo».
Come si vede, in questa spiegazione si riconosce l’iconografia di San Michele che la tradizione dipinge con le insegne della giustizia: la bilancia e la spada. Secondo il libro di Daniele l’Arcangelo è «Il gran principe che vigila sui figli del popolo di Dio». Nell’Apocalisse scende in guerra contro Satana facendolo precipitare con i suoi angeli, cosa che lo restituisce all’immaginario e alla devozione come: «Alfiere del bene che si erge in difesa dei giusti», definizione di Gianfranco Ravasi. Più complicato è capire che cos’abbiano a che fare i simboli della fede e della giustizia, per giunta combinati, con organizzazioni criminali che seminano violenza e morte.
Abbiamo chiesto lumi a Enzo Ciconte, storico, professore di Storia delle mafie all’Università di Pavia, autrore di un saggio intitolato Riti criminali che proprio di queste cose si occupa: «Gli ‘ndranghetisti del tutto strumentalmente considerano San Michele il loro protettore, perché secondo la mitologia interna alla ‘ndrangheta, di cui ovviamente – lo dico a scanso di equivoci – non condivido una virgola, la ‘ndrangheta porterebbe giustizia». E’ un rovesciamento, un’appropriazione indebita di valori che si riscontra continuamente nei verbali che riportano formule di affiliazione: un continuo richiamarsi a concetti positivi in sé come amicizia, rispetto, onore, giustizia, tutti piegati però al sodalizio criminale.
«La religione cattolica», spiega Ciconte «è uno di questi valori strumentalizzati. Le mafie non hanno inventato nulla: copiano il mondo che hanno intorno. Si danno gerarchie come fa anche lo Stato e se non le chiamano gradi ma “doti” o “fiori” è solo perché nel loro immaginario i gradi li hanno gli “sbirri” con cui nulla vogliono spartire. Scimmiottano la liturgia, perché ne hanno bisogno per ammantare di fascino l’organizzazione, per dare una fascinazione di eternità a un vincolo definitivo: chi entra non esce se non con la morte. Ma mai giovani e persone comuni si sarebbero legate a vita a un’organizzazione che si proponeva di uccidere e rubare soltanto».
Lo ripetono studiosi e magistrati, la religione tutta strumentale dei mafiosi è servita storicamente a organizzare il consenso: «Hanno capito fin dall’inizio», continua Ciconte, «che nel Meridione c’era forte attaccamento alla religione cattolica e l’hanno usata – In Sicilia come in Calabria - per accreditarsi dalla parte che la gente sentiva come giusta, perché se non l’avessero fatto nessuno mai li avrebbe seguiti. In questo modo hanno cercato e cercano di affermare un principio di non contraddizione tra religione e organizzazione mafiosa: un mero calcolo di consenso e di esibizione di potere, che ancora sta alla base degli ormai noti inchini durante le processioni religiose e della corsa a portare le statue dei santi. Sono convinto che non ci sia sovrapposizione tra la religione mafiosa e la religione dei cattolici: la religione dei mafiosi è una forma di paganesimo, è una pura strumentalizzazione. Diversamente avremmo tra i mafiosi la stessa percentuale di agnostici che abbiamo nella popolazione dei territori in cui li troviamo e invece non esistono mafiosi agnostici o atei: tutti credenti».
Si tratta di capire credenti in quale Dio. Probabilmente in quello che hanno usato e usano, come scrive Annachiara Valle, in Santa malavita organizzata: «Per farsi accettare dalla gente, per confonderla nel giudicare il bene e il male». In quello che l’antropologa Alessadra Dino in La mafia devota ha definito: «Un Dio privo di tenerezza e di amore, che non conosce la gratuità (…). In nome di questo Dio, l’illecito diventa lecito, la sopraffazione diventa giustizia, l’intimidazione diventa rispetto. (…) Un Dio privato che non appartiene alla natura stessa del Vangelo».