«Il bel paese dove ‘l sì suona». Così Dante pensava all’Italia. Questa è l’Italia, non solo una terra limitata da mari e confini, peraltro esito di guerre fratricide. Amiamo anche i confini, difesi con coraggio dai nostri padri dopo secoli di scorribande nemiche. Ma l’Italia è nazione prima che Stato, anche quand’era serva e ostello di dolore, come piangeva Petrarca. L’Italia è nazione quando eserciti invasori la facevano divisa, debole, piegata al più forte.
Era la sua lingua a farne un popolo. Impastata sulla struttura del latino di Roma, con la ricchezza di parole arabe, normanne, longobarde, franche, spagnole. Perché le sue montagne non erano invalicabili dai pellegrini, dai mercanti, le sue coste accoglievano marinai da ogni sponda del Mediterraneo, e da lì più in su, e poi oltre oceano. È la lingua a fare l’Italia e con la lingua la sua cultura. Allora è giusto che sia italiano chi conosce, parla, studia la nostra lingua, chi nella nostra lingua impari la storia, la geografia, il pensiero, le sue arti. Ovvero ogni bambino che completi il ciclo della scuola primaria e secondaria inferiore. Ogni bambino che per otto anni studi, giochi, scherzi, faccia sport, litighi, rida, con i suoi compagni di classe, in italiano. Come i ragazzi delle nostre nazionali, che ci hanno fatto sognare alle olimpiadi.
Nessuno, se non per ottuso e provocatorio razzismo, può dire che un paio di atleti con diverso colore della pelle non siano italiani. Ma questo i bambini lo sanno benissimo e non fanno, naturalmente, alcuna differenza. È giusto che tocchi a loro accogliere in un popolo chi abbia origini in altri popoli e si accasi da noi per genitori in cerca di un altro lavoro o un’altra vita. Otto anni di scuola italiana, senza ghetti, senza strade troppo semplificate, appena una spinta per mettere tutti in condizioni paritarie di partenza.
L’Italia è cambiata o forse è sempre stata la stessa, come l’Europa. Un crogiuolo di genti che si sono scontrate e incontrate, creando chi siamo noi oggi, biondi e mori, un po’ più scuri o pallidi, slanciati o piccoletti. Oggi è italiano chi nasce da genitori italiani o vive qui da dieci anni. Cioè: un ragazzo arriva con papà e mamma da un Paese lontano e non è italiano fino alla maggiore età e neppure basta, anche se con l’italiano ha imparato rapidamente il dialetto della sua città. Non è il sangue a fare un popolo, e neppure la residenza o il semplice atto di nascita. È lo studio: sola garanzia di futuro, anzitutto per il Paese, che altrimenti morirà della sua presunta purezza, sempre più vecchio. E per ogni uomo e donna che in questo Paese è arrivato: sentirà l’Italia più sua, non potrà odiarla, se l’ha conosciuta e ne è stato riconosciuto.
Questo bel binomio latino, ius scholae, buttato lì nel mezzo di un’estate indifferente o in pena per guerre ininterrotte, è un’occasione da non buttare per spingere i partiti a ragionare insieme, celermente, su una nuova legge per la cittadinanza. Al di là delle ideologie, delle paure alimentate, da opportunismi per accaparrare voti. Basta guardarsi attorno: L’Italia è cambiata. Accorgersene non solo è giusto, ci conviene.