«La sentenza della magistratura sull’ex Ilva ha stabilito quello che i tarantini sapevano già da tempo ed è supportato dagli studi scientifici e cioè che quello che è avvenuto a Taranto a causa della fabbrica in tutti questi anni è stato un disastro ambientale vero e proprio. Il sentimento della città nei confronti dei magistrati è di profonda gratitudine ed è un sentimento che condivido in pieno. Ma ora bisogna cambiare rotta».
È il commento di monsignor Filippo Santoro, (nella foto in alto), 72 anni, arcivescovo del capoluogo jonico dal 2012 e presidente della Commissione Episcopale della Cei per i Problemi sociali e il Lavoro, sulla sentenza di primo grado che lunedì, dopo 9 anni di udienze, ha condannato, al termine del processo di primo grado, gli ex vertici aziendali dell’acciaieria Fabio Riva a 22 anni e suo fratello Nicola a 20. Le accuse, a vario titolo, sono di disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose. Il giudice di Taranto ha ritenuto che il disastro ambientale fosse «doloso» e quindi messo in conto dalla proprietà. I magistrati hanno condannato anche l’ex presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, a tre anni e mezzo per concorso in concussione aggravata. La Corte d’Assise ha accolto anche la richiesta di confisca dell’area a caldo, ponendo una seria ipoteca sul futuro del polo siderurgico.
Questa sentenza, ancorché non definitiva, cosa significa per Taranto?
«Bisogna restituire speranza a una città sfiancata dall’incertezza. Io sento la gratitudine e il riconoscimento da parte dei cittadini verso la magistratura ed è un sentimento che condivido in pieno anche perché abbiamo vissuto un lungo tempo d’incertezza e d’immobilismo. Ora ci sono a disposizione i fondi del Pnrr (Piano nazionale ripresa e resilienza, ndr) e del Fondo Next Generation Eu. Vanno utilizzati e la politica deve dare un segnale forte per superare l’incertezza e il disincanto dando testimonianza che le cose possono cambiare. È l’ora della svolta».
Come legge la decisione dei giudici?
«La magistratura ha stabilito che la situazione sarebbe andata diversamente se la politica si fosse preoccupata della salute dei cittadini. Io sono qui dal 2012 e ho sempre visto un procrastinare, un rimandare le decisioni, un temporeggiare sulla pelle dei tarantini. Un giorno c’era un intervento della magistratura e il giorno dopo la politica bloccava quello che la magistratura indicava. Se la politica si fosse occupata della salute dei tarantini si poteva trovare una soluzione».
L’ex presidente Vendola si è difeso affermando che sono stati calpestati la verità e il diritto.
«Non entro nel merito delle dichiarazioni fatte da chi ha subito una condanna, mi auguro che in un dibattimento ulteriore la posizione di Vendola, come degli altri imputati, si chiarisca. Però ricordo che le sentenze vanno sempre rispettate e accettate. Da pastore di questa città insisto sulla necessità di un cambiamento, di una svolta. I singoli imputati potranno dimostrare ulteriormente le loro ragioni e lo faranno nei gradi successivi di giudizio».
Adesso cosa bisogna fare?
«Attuare la transizione ecologica visto che abbiamo anche un ministero ad hoc. Taranto è la città che ha pagato il prezzo più alto e ora bisogna offrire i segni di una volontà di cambiamento. Questo è il momento in cui bisogna cambiare rotta e fare due cose: ripartire con le bonifiche, attese da tanti, troppi anni, per porre rimedio ai disastri fatti e rivedere radicalmente il processo di produzione dell’acciaio utilizzando metodi non inquinanti. All’estero si fa, perché qui no? Il rischio è che la gratitudine dei cittadini verso la magistratura si trasformi in disincanto e sconforto, come a dire: “tanto non cambierà mai nulla”».
A ottobre Taranto ospiterà la Settimana Sociale dei cattolici italiani. Come si sta preparando?
«Abbiamo scelto Taranto perché è una città emblematica dei disastri che produce un sistema che pone il lucro e il guadagno al primo posto. La Settimana sociale dirà una parola forte sulla questione della cura dell’ambiente e sul rapporto tra lavoro e cura della casa comune, un lavoro che sia degno, in cui nessuno deve essere minacciato di morte dall’inquinamento mentre sta lavorando. A Taranto si condensano in maniera drammatica tutti questi problemi. L’Italia per tutto l’acciaio prodotto in questi anni ha un debito nei confronti della città che ha pagato a caro prezzo, con la salute e la vita, l'avere un posto di lavoro».
Le denunce, ignorate, sull’impatto ambientale dell’Ilva risalgono agli anni Settanta quando il centro siderurgico raddoppiò e i piani regolatori vennero modificati per permettere di costruire altoforni vicino alle case. Cosa si è sbagliato in questo modello di industrializzazione?
«In passato si vedeva la fabbrica come una prospettiva di sviluppo e di crescita. L’errore non è stato quello di aver aperto il polo siderurgico ma che non si siano state curate le modalità con cui la produzione del’acciaio è avvenuta in tutti questi anni. Nel Mezzogiorno, e in questo territorio in particolare, ci vogliono investimenti perché l’economia non sia dipendente dall’acciaio. Bisogna diversificare le imprese produttive, questa è la vera questione, non concentrare in una grossa fabbrica, con metodi obsoleti, tutto. Vanno trovate fonti di guadagno e sviluppo diversificando l’industria,valorizzando l’agricoltura e il turismo, e la cultura dei prodotti del mare. L’agricoltura di eccellenza, dal vino agli agrumi, è un volano importante, c’è tutto un mondo che deve essere valorizzato per liberare Taranto dalla monoproduzione dell’acciaio. Ora spero si vada avanti».