Niente ruspe né sgomberi con la forza, ma un trasferimento pacifico, possibile grazie a un lavoro di rete. All’alba di martedì 30 luglio, a Torino, gli ultimi migranti (circa 370 persone) che occupavano l’ex Moi (il villaggio costruito per le Olimpiadi invernali del 2006, da tempo abbandonato al degrado) hanno lasciato le palazzine, per trasferirsi in alloggi e strutture di accoglienza. E’ il risultato del progetto “Moi, Migranti, un’opportunità di inclusione”, nato per affrontare una situazione estremamente critica, che rischiava di diventare esplosiva. Cinque gli attori coinvolti: Comune di Torino, Regione Piemonte, Prefettura di Torino, Compagnia di San Paolo e Diocesi di Torino.
Alla notizia dell’uscita dalle palazzine degli ultimi occupanti, il ministro dell’interno Matteo Salvini (e con lui diversi altri esponenti leghisti) non ha perso occasione per scatenarsi sui canali social: «Avanti con gli sgomberi e il ritorno della legalità in tutta Italia». In realtà quanto accaduto a Torino ha caratteristiche assolutamente peculiari, impossibili da paragonare con altre realtà. Determinante, innanzi tutto, è stato l’impegno congiunto di attori diversi, pubblici e privati. E fin da subito, pur tra ostacoli e battute d’arresto, c’è stata una visione condivisa, volta a mettere al centro la persona. Il progetto non è affatto concluso (anzi, da un certo punto di vista, la fase più complicata inizia ora, poiché bisognerà assicurare un futuro autonomo e stabile agli ex occupanti, evitando che nell’arco di qualche mese si ritrovino nuovamente in strada), ma sicuramente il percorso intrapreso nel capoluogo piemontese può rappresentare un modello.
Ne è convinto, l’arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia. «Siamo soddisfatti di aver potuto offrire il nostro apporto a una impresa complessa e non facile, ma necessaria anche per il bene vivere delle persone immigrate coinvolte, del quartiere e della città», ha spiegato il pastore, nel corso di una conferenza stampa. E ha aggiunto: «Il progetto Moi contempla uno spostamento degli abitanti delle palazzine in strutture più umane e dignitose per tutti, in appartamenti o locali non affollati, con un percorso che tiene conto di ogni singola persona e delle sue esigenze e potenzialità, li qualifica con un cammino di formazione (lingua, cultura, mestiere..), un lavoro e un accompagnamento sostenuto da persone qualificate e preparate».
Il “caso Moi” era iniziato nella primavera del 2013, quando un gruppo di migranti, ritrovatisi improvvisamente in strada alla scadenza della cosiddetta “emergenza Nord Africa” avevano iniziato a riversarsi nelle palazzine dell’ex villaggio olimpico, abbandonate e ormai ridotte a ruderi. Nel tempo gli occupanti erano diventati oltre 1.000. Nell’ex complesso olimpico convivevano, fianco a fianco, realtà diversissime: famiglie con bambini piccoli, giovani studenti, persone senza fissa dimora che tentavano di sopravvivere con lavoretti di fortuna, ma anche situazioni di delinquenza (spaccio di droga, infiltrazioni della mafia nigeriana e perfino un caso di omicidio). Insomma, una polveriera, tra problemi di ordine pubblico e frequenti tensioni con i residenti del quartiere (benché, bisogna ricordarlo, non siano mancati i casi di solidarietà da parte dei cittadini verso singoli e famiglie in difficoltà).
Il progetto “Moi, migranti, un’opportunità di inclusione” è nato per affrontare l’emergenza con risposte strutturali e a lungo termine. L’obiettivo non era solo quello di liberare le palazzine (avviando un piano di riqualificazione della struttura) ma anche di offrire alle persone coinvolte opportunità concrete per inserirsi nella società e rendersi autosufficienti. «Quando possibile, infatti, i migranti sono stati inseriti nei percorsi Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati)» ha ricordato il prefetto di Torino, Claudio Palomba. Non solo: «abbiamo seguito 218 formazioni professionali, 88 tirocini, attivato 132 contratti di lavoro, accolto e seguito oltre 30 famiglie» ha aggiunto il segretario generale della Compagnia di San Paolo, Alberto Anfossi. La liberazione (i responsabili del progetto preferiscono questo termine al più ambiguo “sgombero”) è stata attuata per gradi, procedendo con una palazzina alla volta, a intervalli di qualche mese. In prima battuta la fine delle operazione era stata prevista nel 2020. L’accelerazione impressa negli ultimi mesi allo svuotamento della struttura aveva suscitato polemiche. «Ma anche in questo caso» hanno precisato gli attori coinvolti «la nostra prima preoccupazione è stata per i migranti, che all’ex Moi vivevano in condizioni insostenibili. Abbiamo affrettato la liberazione delle palazzine anche per poter offrire loro una sistemazione più dignitosa».
Al termine delle operazioni, conclusesi senza incidenti, la sindaca di Torino, Chiara Appendino, ha parlato di «un progetto coraggioso. Quando abbiamo iniziato il nostro tavolo di lavoro, nel 2016, in pochi pensavano che la soluzione da noi prospettata fosse possibile. Ci siamo trovati ad affrontare la più grande occupazione d’Europa. E i tre anni già trascorsi dall’inizio dell’emergenza rendevano il dialogo ancora più difficile. Per risolvere problemi complessi serve fare rete e serve una comunità che sappia approcciare la problematica in modo molto pragmatico, mettendo al centro la persona. Credo che quanto accaduto a Torino possa diventare un modello». Sicuramente gli aspetti positivi non mancano. «Teniamo conto, però, che, in questi anni circa 900 persone sono state inserite in strutture di accoglienza. E molte di loro sono ancora in attesa di trovare sistemazioni più stabili» fa notare Sergio Durando, direttore dell’ufficio di Pastorale dei Migranti della Diocesi di Torino. «C’è una sfida che inizia ora. E per affrontarla serviranno, almeno, altri due anni».