La targa che ricorda il giorno in cui LIliana Segre fu deportata ad Auschwitz. In copertina: Liliana al Binario 21 della Stazione centrale di Milano.
Da
diciotto anni, il 30 gennaio Liliana Segre torna nei sotterranei della Stazione
Centrale di Milano, al binario 21. Insieme alla Comunità di Sant’Egidio, alla
Comunità ebraica e a tanti milanesi, ricorda il giorno del 1944 in cui lì fu
caricata a calci e pugni sui vagoni merci per Auschwitz.
Dopo la guerra, quel
luogo rimase dimenticato per decenni, prima lo usavano le Poste, poi ci organizzavano
delle sfilate di moda.
Nel
1997, Liliana tornò per la prima volta «nel
buio di quel buco nero» con la Comunità di Sant’Egidio. Racconta: «I primi anni eravamo una cinquantina di
persone, con una candela in mano; c’erano il cardinal Martini, rav. Laras,
Milena Santerini». Grazie alla fedeltà a quella memoria, oggi stanno per terminare
i lavori del Memoriale della Shoah, proprio nel luogo in cui dal 1943 al 1945 migliaia
di persone furono deportate nei lager di Auschwitz e Bergen Belsen e nei campi
italiani di raccolta di Fossoli e Bolzano.
All’ingresso,
la prima cosa che cattura lo sguardo è un grande muro grigio con l’enorme
scritta «indifferenza». L’ha voluta
Liliana: «È quello che ha permesso», dice,
«che tante persone non si siano neanche accorte di quello che stava succedendo
al loro vicino di casa».
Lei la sentì da subito, da quando a otto anni scoprì
di essere diversa dai suoi compagni. Diversa perché ebrea e le Leggi Razziali
del 1938, un’infamia italiana, la espulsero dalla sua amata scuola. La maestra
Cesarina, invitata a casa per darle conforto, rispose con un’alzata di spalle: «Non le ho mica fatte io le leggi», disse. Le
compagne iniziarono a non cercarla più, ad additarla con delle risatine, il
vicino di casa smise di salutare la sua famiglia, gli amici sparirono.
Un primo piano di Liliana Segre.
"I tedeschi lessero l’elenco di chi l’indomani sarebbe partito"
Quando nel 1943 la Repubblica di Salò ordinò l’arresto di tutti gli ebrei e la confisca dei loro beni, il padre (la madre era morta da anni) organizzò la fuga con la figlia in Svizzera, aiutato da alcuni amici di famiglia. Pagarono i contrabbandieri e passarono la frontiera. Ma lì trovarono un poliziotto elvetico che sentenziò: «Non potete entrare…la barca è piena». «Mi buttai ai suoi piedi», racconta Liliana, «supplicandolo tra i singhiozzi di non rimandarci in Italia».
Li riportarono oltreconfine e furono poi arrestati dalle camicie nere. Padre e figlia finirono in carcere prima a Varese, poi a San Vittore. «Di notte, inginocchiato vicino alla branda, papà Alberto mi chiedeva scusa per avermi messa al mondo; io lo accarezzavo, dicendogli: “Ma io sono felice di essere qui con te, non vorrei essere da nessuna altra parte”. Il mio papà bellissimo, giovane, alto, che avrebbe avuto tutto dalla vita e che invece era diventato perdente e fragile».
L’ultima sera nella prigione milanese, i tedeschi lessero l’elenco di chi l’indomani sarebbe dovuto partire. Rino Ravenna, amico dei Segre, si suicidò: «Mio padre», racconta Liliana, «avrebbe potuto fare lo stesso. Non lo fece perché c’ero io».
L'incontro di quest'anno presso il Memoriale della Shoah, alla Stazione centrale.
"I repubblichini erano più crudeli dei loro potenti alleati nazisti"
La mattina del 30 gennaio una lunga colonna silenziosa e dolente sfilò per i corridoi del carcere: «Attraversammo il raggio dei detenuti comuni. Si sporgevano dai ballatoi e ci buttavano arance, mele, biscotti, ma soprattutto ci urlavano parole di incoraggiamento, di solidarietà e benedizione. Furono straordinari: uomini che provavano pietà per altri uomini condannati al macello solo per la colpa di essere nati. Ci caricarono su un camion a calci e botte. Attraversammo la città deserta e scorsi la mia casa in corso Magenta».
Arrivati alla Stazione Centrale, i camion si infilarono nei sotterranei: «Non avevo nessun particolare pregio», continua, «non ero bella, non avevo niente di speciale, ero una ragazzina qualunque, colpevole di essere nata ebrea. Avevo una massa di capelli neri già incolti, perché da due mesi, da quando ero stata arrestata, non mi lavavo la testa».
Liliana si ricorda benissimo quei momenti: i soldati tedeschi armati fino ai denti, con al guinzaglio i cani feroci, e i repubblichini «che cercavano di essere più crudeli dei loro potenti alleati. “Italiani!”, ripeteva mio padre. “Sono italiani quelli che ci picchiano, che ci scherniscono!”. La disumanità dei giorni passati non erano nulla in confronto alla bestialità che ci ritrovammo di fronte. Per la prima volta capii di essere considerata una non-persona, un pezzo, uno Stück, appunto».
Uno scorcio del Memoriale della deportazione a Milano.
"Quello fu l’attimo straordinario che dimostrò la differenza tra me e quell’assassino"
Nel buio del vagone, il viaggio fino Auschwitz durò una settimana, con un po’ di paglia per terra e un secchio per i bisogni che debordava. E gli occhi rossi del padre. Nel lager, Liliana era un pezzo, numero 75190 come ancora oggi è inciso sulla sua pelle. Riuscì a resistere alla separazione dal papà (morto nel campo), alle umiliazioni «per farci scontare la colpa di essere nate», alle selezioni completamente nuda davanti alle SS in eleganti uniformi, alla “Marcia della morte” per lasciare Auschwitz.
L’ultimo campo fu quello di Malchow, nel nord della Germania, dove finalmente arrivarono le truppe dell’Armata Rossa. Poche ore prima, Liliana vide i tedeschi che gettavano divise e fucili per tornare a casa, ad abbracciare i loro bambini.
«Riconobbi», ricorda, «il capo del campo mentre buttava la pistola per terra. Era un uomo terribile, crudele, che picchiava selvaggiamente le prigioniere, e in quel momento una parte di me avrebbe voluto raccogliere la pistola e ucciderlo. Fu un istante di vertigine, durante il quale si erano invertite le parti: forte io e debole lui. Guardai l’arma, feci per prenderla convinta di potergli sparare, sicura che ne sarei stata capace. La vendetta mi sembrava a portata di mano. Ma di colpo capii che non avrei mai potuto farlo, che non avrei mai potuto ammazzare nessuno. Questo fu l’attimo straordinario che dimostrò la differenza tra me e quell’assassino. E da quel preciso istante fui veramente libera».