di Ivano Zoppi
La scena è davanti agli occhi di tutti. Anche di chi non era a Civitanova Marche e ha potuto “goderne” sul web. Un uomo ucciso da un altro uomo. A mani nude. Un delitto terribile, reso ancora più esecrabile da un video, ovviamente divenuto subito virale.
I testimoni presenti, a decine, non solo hanno scelto deliberatamente di non intervenire, ma non hanno mancato di riprendere e condividere in Rete ciò che stava accadendo. Come se si stesse girando la scena di un film e loro, i registi, a immortalare quella che poi si sarebbe rilevato un dramma al di fuori di qualsiasi logica, compresa quella criminale. “Fermati o lo ammazzi!”, si sente urlare, gridare, come a rimarcare i momenti concitati di un action movie. Una narrazione cinematografica, grottesca e amorale che, invece di creare repulsione, ha scatenato un pruriginoso voyeurismo sui social, ovviamente emulati a stretto giro dalle Tv generaliste.
La verità è che siamo tutti astanti, passeggeri distratti lungo i binari di una disumanità che, da tragico segno dei tempi, è diventata un mezzo per macinare visualizzazione e impennare l’odiens. Siamo tutti astanti, sì, ma non immobili. Ce ne laviamo le mani come Ponzio Pilato, ma subito dopo le mettiamo sullo smartphone per immortalare e condividere l’evento. È successo durante l’aggressione di Civitanova Marche, piuttosto che nel corso della rissa, a colpi di bottiglie di vetro, di pochi giorni fa davanti alla Stazione Centrale di Milano. Così, queste immagini oscene, violente e feroci passano dai social ai talk show. Senza colpo ferire, senza porci una domanda tanto semplice quanto scomoda: ma c’era davvero bisogno di questi video? Che effetto producono nelle giovani generazioni? Prima di quest’epoca iper connessa, avremmo mai visto queste immagini sui Tg?
L’omicidio di un essere umano, per giunta a sangue freddo, è sempre un orrore, verrebbe da dire… Un postulato assoluto, che non cambia a fronte delle migliaia di perdite di una guerra, come pure di una pandemia. Peccato che, per definizione, i postulati arrivino sempre dopo, troppo tardi, quando il biglietto del cinema è stato già staccato. Protestare sui titoli di coda non è ammissibile, non sono previsti rimborsi. Eppure il prezzo è altissimo. Il prezzo delle coscienze di chi conserverà e dimenticherà quelle immagini omicide nel cloud del suo smartphone o nella memorie di qualche chat di gruppo. Come se la morte fosse un pretesto per una chiacchierata sotto l’ombrellone.
Non resta che il retrogusto amaro dell’assuefazione. Siamo talmente abituati al lato brutto delle cose, che perfino l’orrore non ci sconcerta. Eppure ci dev’essere un momento, un istante preciso nel quale abbiamo smesso di pensare, di sentire, di scegliere da che parte stare. La pietà non è un’App che si può scaricare, non si aggiorna in automatico. Forse dovremmo tutti alzare la testa dagli schemi e guardarci finalmente meglio occhi. Con tutta probabilità scopriremmo che non eravamo pronti. Credevamo di poter governare tutta questa tecnologia, ma ci sbagliavamo. E adesso non possiamo più tornare indietro. In questo contesto l’educazione alla cittadinanza digitale non è più rinviabile, a partire dal sistema scolastico.