Il parroco don Enrico Parazzoli, 53 anni
«Ho grande rispetto per la scelta di Silvia Romano e non mi permetto di giudicarla. Trascorrere diciotto mesi di prigionia è qualcosa che non possiamo neanche immaginare. Se, a mente fredda, quando si sarà placato il clamore di questi giorni, lei reputa che l’Islam sia la risposta corretta per la sua esistenza, io sono solo contento. Però, deve fare i conti, nel suo intimo, con il suo essere donna, occidentale e persona adulta».
Don Enrico Parazzoli, 53 anni, è il parroco di Santa Maria Bianca della Misericordia, la parrocchia del quartiere Casoretto, tra via Padova e Lambrate, dove abita la famiglia di Silvia Romano, la cooperante italiana liberata sabato scorso.
È riuscito a salutarla di persona?
«Ho tentato di avvicinarmi tra la folla appena è arrivata, lunedì pomeriggio, ma non ce l’ho fatta perché c’era troppa gente e tanti cameraman e cronisti. Lo farò dopo».
Il quartiere come ha vissuto la liberazione?
«Con grande gioia, c’erano attesa e trepidazione. Io sono arrivato qui come parroco a settembre. Ho tentato di incontrare la madre, che abita a pochi metri dalla chiesa, ma non sono riuscito. Tutta la famiglia Romano è molto riservata e su questa vicenda, da sempre, ha mantenuto il massimo riserbo. La madre non ha mai parlato nei lunghi mesi del sequestro, il padre, che abita in via Padova, aveva affidato a un post su Facebook il suo pensiero in occasione del compleanno della figlia. Per il resto, silenzio assoluto, com’è giusto in casi delicati come questo».
Sabato ha suonato le campane in segno di festa.
«Era il minimo che potessi fare. Il Casoretto è un quartiere multietnico che somiglia molto a un paese perché ci si conosce tutti, anche se ci sono ventimila abitanti. Con aplomb tutto milanese la nostra gente ha gioito per la liberazione e io ho suonato le campane per dare il bentornato alla ragazza».
Silvia frequentava la parrocchia prima di impegnarsi nella cooperazione internazionale?
«Ha frequentato l’oratorio per il catechismo fino alla seconda media, poi si era allontanata. Per alcuni anni, insieme ad alcune amiche, ha fatto l’animatrice nella vicina parrocchia di San Giovanni Crisostomo, alla fine ha optato per altro. Si era iscritta a Mediazione culturale ed era entrata nel mondo del volontariato per aiutare soprattutto i bambini piccoli come faceva in Kenya quando è stata rapita».
La famiglia Romano è praticante?
«Non in senso stretto».
L'arrivo di Silvia Romano nel suo quartiere del Casoretto a Milano (Ansa)
Molti hanno criticato Silvia per la sua conversione all’Islam. Lei cosa ne pensa?
«Un anno e mezzo di prigionia sono terribili, è chiaro che ti aggrappi a qualcosa, magari alla religiosità, chiamiamola così, dei tuoi carcerieri. In tante persone rapite scatta la sindrome di Stoccolma e quando vengono liberate hanno parole d’elogio per i loro rapitori. Per lei è stata una prova durissima che nessuno di noi può neanche lontanamente immaginare. Credo che Silvia abbia tentato semplicemente di adattarsi. Immagini svegliarsi ogni mattina, senza sapere nulla, e chiedersi se il tuo Paese sta facendo qualcosa per tirarti fuori da quella situazione. È terribile».
La conversione potrebbe essere stata forzata?
«Non lo so. Il concetto di conversione nella cultura islamica è molto diverso rispetto a quella cristiana. Nell’Islam, la conversione riguarda un orientamento a un sistema di norme, precetti e regolamenti che servono a vivere meglio. C’è una dimensione contrattuale mentre per noi cristiani convertirsi è un’adesione più esistenziale e interiore. Non so cosa sia scattato nella mente di Silvia quando si è trovata a stretto contatto con i suoi carcerieri».
Qualche giornale l’ha accusata di aver “approvato” questa scelta della ragazza verso l’Islam.
«Ma no, si figuri. (sorride, ndr). Prima di giudicare bisogna sempre capire».
L’ha sorpresa vederla atterrare in Italia con l’abito islamico?
«No, però in certi frangenti e dopo aver vissuto situazioni così drammatiche forse non sei tu che decidi ma ti dicono quello che devi fare e soprattutto dire».
Molti haters (odiatori, ndr) sui social durante il periodo del sequestro avevano criticato pesantemente Silvia Romano perché “se l’è cercata”.
«Io penso che bisognerebbe distogliere l’attenzione dalle scelte, anche personali, del singolo cooperante e guardare al sistema delle Ong e della cooperazione internazionale e in questo voi giornalisti potete offrire un contributo prezioso».
Si spieghi meglio.
«Silvia Romano era andata con una piccola Ong in Kenya, in una zona considerata da molti esperti e cooperanti pericolosissima come poi purtroppo s’è rivelata. Se una Ong è troppo piccola o non è in grado di garantire la sicurezza dei suoi cooperanti è meglio che non si prenda mai la responsabilità di mandare delle persone in queste zone. Conosco numerose Ong che scoraggiano ad andare in certe zone perché i rischi sono troppo alti. Forse più che della conversione islamica di Silvia dovremmo aprire un dibattito senza ideologie su questo».
Cosa augura a Silvia per il futuro?
«Che torni ad essere serena, possa recuperare la dimensione degli affetti e riesca a fare i conti con quello che ha dentro. Una ferita ce l’hai, inevitabilmente, dopo diciotto mesi di prigionia. Deve fare i conti sulla lunga distanza con quello che le è accaduto e questo non sarà facile».