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mercoledì 12 febbraio 2025
 
SCELTE CORAGGIOSE
 

Simone Biles, quando l'atleta dell'anno è una campionessa all'apparenza sconfitta

10/12/2021  Time ha nominato la ginnasta americana più attesa a Tokyo che sul più bello ha avuto la forza di ammettere pubblicamente la sua fragilità e di rinunciare a quello che il mondo si attendeva da lei. Una scelta rivoluzionaria che fa pensare al significato che diamo alla parola "vincente"

Rimbalza e sorridi bambina, anche se ci sono gli orchi lì dentro. Anche se la vita ti ha messo da subito la strada in salita facendoti nascere in una famiglia complicata. Rimbalza, sorridi e vinci, perché il mondo veda che Dio benedice l’America.

Perché è una ipocrisia bella e buona quella (spacciata dagli uni e dagli altri secondo il comodo, ma in definitiva un po’ da tutti) che la politica non deve inquinare lo sport. Lo sport di vertice è da sempre e ovunque, più o meno intensamente, ragion di Stato. E di sicuro Simone Biles, la ginnasta più medagliata della storia, è partita per Tokyo 2020 diventata 2021, sapendo benissimo di gareggiare con tutti gli Stati Uniti, dove la ginnastica femminile è una specie di religione laica, sulle spalle. C’era in palio il non detto: arrivare a cinque medaglie d’oro in una sola Olimpiade, lasciando indietro le sole ginnaste, tutte dei tempi andati e tutte dell’est (Agnes Keleti, Larisa Latynina, Vera Caslavska e Ecaterina Szabo), che condividevano con lei il record delle quattro ottenuto a Rio 2016.

Doveva essere l’atleta simbolo di Tokyo, in una realtà, quella dello sport professionistico e dei suoi spettatori, in cui è fin troppo facile dividere il mondo in vincenti e perdenti nello spazio di un mattino, dove la discesa tra gli altari e la polvere sa essere precipitosa e verticale. E simbolo è diventata, forse suo malgrado, Simone Biles ma di qualcosa di diverso: fermandosi sul più bello, ammettendo la propria fragilità. Ha confessato prima sui social e poi in conferenza stampa di aver perduto la sicurezza che la contraddistingueva agli attrezzi. “Twisties” ha chiamato in inglese il suo problema: per i non addetti ai lavori è l’impazzimento improvviso del sistema fisico e mentale che regola l’orientamento del corpo in volo, sistema che normalmente ha sofisticatissimo il ginnasta che salta girando contemporaneamente più volte sull’asse verticale e orizzontale del corpo riuscendo (miracolosamente dicono i comuni mortali) ad atterrare in piedi. Come tutti i sistemi sofisticati è delicato, e a Simone Biles, la più forte di tutte, è andato in tilt nel momento più importante e più difficile, con tutto il mondo addosso.

Avrebbe potuto cercare una scusa, Simone, inventarsi un infortunio ordinario e banale. E invece è andata davanti alle telecamere affranta e turbata a spiegare che lo sport non è una banale questione di tendini e di muscoli, che sono testa e cuore, quanto tutto preme, a tradirti davvero facendoti perdere ogni orizzonte, non solo di spazio ma anche di senso. Si è fermata Simone, rinunciando a una sequela di gare e alle medaglie che il mondo si attendeva da lei, tenendosi stretto alla fine il bronzo alla trave arrivato in extremis in fondo alla tempesta, ha spiegato che la vita veniva prima: vita fisica anche, perché se cadi male mentre giri rischi anche quella e sei senza rete, ma non è mica vero che lo spettacolo deve sempre continuare.

Non tutto il suo Paese gliel'ha perdonata, perché sul carro dei vincitori si salta tutti insieme, mentre i cocci della sconfitta si fa a gara a non spartirseli. Se vinci sei un’eroina e tutta l'America salta, magari obtorto collo, sul carro del black lives matter per un giorno, perché per quel giorno sei solo americana, ma se rinunci una parte ti contrappone immediatamente alla piccola eroina bianca, Kerri Strug, immolata - da altri, anche lei un simbolo di fragilità cui lo sport non dà cittadinanza - sull'altare della gara a squadre, con una caviglia già a pezzi, ad Atlanta 1996. Se vinci sei un'eroina, se ti ritiri poco meno di una rinnegata.

Ma ora la rivista Time, facendo una cosa rivoluzionaria, ha premiato Simone Biles con la copertina che decreta l’atleta dell’anno: sulla carta un’atleta sconfitta che si è rivelata una volta ancora (lo aveva già fatto testimoniando al processo al medico delle ginnaste statunitensi condannato a 176 anni per abusi sessuali su una quantità di ginnaste ragazzine) una donna capace di guardare oltre il quadrato della pedana e, se del caso, di riprendersi la vita oltre l’orizzonte spesso ristretto che delimita il campo di gara. E pazienza se chi le ha fatto le carte chiamandola vincente aveva inteso un'altra cosa.

 

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