I segni di tortura visibili sulla Sindone (alcuni studiosi ne hanno contati ben 123) sarebbero compatibili con le forme dei flagelli usati all’epoca di Gesù. Lo rivela un’analisi condotta da Flavia Manservigi, dottore di ricerca presso l’Università di Bologna e membro del Ciss (Centro Internazionale di Studi sulla Sindone). Sappiamo dai Vangeli che, prima della crocifissione, Gesù ha subìto la flagellazione. E sappiamo, da numerose fonti storiche, che nel mondo antico questa era una pratica brutale, una forma di tortura particolarmente cruenta, tanto da non poter essere inflitta ai cittadini romani, ma soltanto a criminali e schiavi, cioè uomini considerati quasi alla stregua di animali. Dunque è questo il destino che Gesù ha patito nelle ore tremende della passione. E di questo destino il sudario custodito nel duomo di Torino potrebbe restituirci una testimonianza, in forma di immagine.
Per i credenti la Sindone (cioè il lenzuolo, che, secondo la tradizione, ha avvolto il corpo di Gesù dopo la deposizione dalla croce) è innanzi tutto un’icona, cioè un riferimento spirituale, che va letto con gli occhi della fede. Ma che cosa ne dice l’archeologia? Provare a rispondere significa spalancare un mondo di domande. Sì, perché l’autenticità (ma già il termine è problematico) della Sindone è questione continuamente dibattuta, che vede illustri specialisti schierati su fronti opposti: c’è chi la ritiene un documento compatibile con l’epoca di Cristo, chi, al contrario, sostiene si tratti di un manufatto medievale.
Il Ciss (Centro Internazionale di Studi sulla Sindone) ha sempre evitato di schierarsi su posizioni preconcette e cercato, invece, di avvicinarsi al sudario con uno sguardo il più possibile rigoroso e scevro da pregiudizi. Ed è in questo quadro che si collocano i recenti studi sulla flagellazione. Scopriamo, più nel dettaglio, di che cosa si tratta.
La ricerca comparativa sui flagelli dei Musei Vaticani e i documenti: lo studio di Flavia Manservigi sui segni impressi sulla Sindone
Manservigi ha iniziato la sua ricerca comparando i segni presenti sulla Sindone con le forme di alcuni flagelli conservati presso i Musei Vaticani e ha constatato una possibile compatibilità. In questi ultimi mesi ha scelto di ampliare lo studio, cercando altre fonti. Stanno poco alla volta emergendo testimonianze appartenenti a epoche diverse e disseminate in tutta Europa: si spazia da Verucchio (piccolo comune presso Rimini) a Londra, dove, presso il Museum of London, sono conservati alcuni flagelli di epoca sassone.
«Ci muoviamo su un terreno delicato» racconta la giovane studiosa bolognese. «Stiamo parlando di strumenti fatti con materiali deperibili: per questo le testimonianze giunte fino a noi sono poche. Ma anche le fonti iconografiche scarseggiano: oggetti di questo genere venivano rappresentati di rado nel mondo antico, a meno che avessero una valenza simbolica o fossero associati a qualche mito».
E tuttavia i dati finora disponibili, pur non molto abbondanti, ci consentono di ritenere «che nel mondo antico fossero diffusi flagelli con terminazioni globulari, come delle sferette». E proprio a strumenti di questo genere sembrerebbero rimandare le tracce sindoniche. Emerge, tra l’altro, un dettaglio che fa riflettere: «Alcuni di questi oggetti sono in realtà classificati come pungoli per cavalli, ma è possibile che venissero usati anche per infliggere torture a schiavi e condannati, persone che nella mentalità del tempo non avevano uno status pienamente umano, ma erano quasi assimilabili ad animali. Questo ci spinge a interrogarci anche sul ruolo che il cristianesimo ha avuto nella promozione della dignità della persona».
Il dibattito sulle tracce di sangue della Sindone: sono umane o di altra provenienza? Il dubbio di Kelly Kearse
A proposito di studi sindonici recenti, si riapre il dibattito sulle tracce di sangue presenti sul telo. In un articolo pubblicato a febbraio sulla rivista “Forensic Science International: reports”, l’immunologo statunitense Kelly Kearse mette in dubbio l’affermazione che si tratti di sangue umano, conclusione cui erano giunti alcuni studi condotti negli anni ’80 (qualcuno si era spinto perfino a identificare il gruppo sanguigno: AB), Secondo Kearse, invece, l’identificazione della specie sarebbe alquanto dubbia: infatti, con i metodi di analisi usati all’epoca degli studi, per effetto di cosiddette reazioni crociate si sarebbero potuti ottenere risultati analoghi anche a partire da sangue non umano. Si badi bene, però: liquidare la questione parlando di “sangue falso”, come talvolta accade in questi casi, sarebbe un grave errore. Kearse non sta affatto dicendo che il sangue sia “falso” (per quanto la parola possa aver senso in ambito scientifico), ma solo che i metodi finora usati non permettono di giungere a conclusioni certe.
La testimonianza di Walter Memmolo, chirurgo e membro del Ciss, ci aiuta a capire quanto sia difficile condurre studi su tracce ematiche di quel genere. «Partiamo dal presupposto che il sangue inizia a degradarsi non appena fuoriesce dall’organismo. Nel caso di sangue antico, giungere a identificare la specie è molto difficile, a meno che il sangue sia stato conservato in condizioni ottimali». E non è certo il caso della Sindone, sottoposta nei secoli a diversi agenti contaminanti, elevate temperature comprese. Per di più, i campioni disponibili sul lenzuolo torinese sono estremamente esigui «e non si tratta nemmeno di sangue intero, ma di impronte di coaguli, con aloni di siero» chiarisce Memmolo.
Nel suo articolo, Kearse propone anche di adottare un test rapido per l’identificazione della specie sulle tracce di sangue sindonico, un’idea che però ha sollevato perplessità, per le stesse ragioni di cui si diceva sopra, cioè esiguità e deterioramento dei campioni disponibili. Gli esami condotti sul siero presentano comunque risultati compatibili con sangue umano. E la questione, dunque, rimane aperta. Va in ogni caso rilevato che le tracce ematiche sono associate all’immagine di un uomo torturato e crocifisso. Un’impronta misteriosa, della quale non conosciamo l’origine (di sicuro non è un dipinto, né una stampa, né un’immagine ottenuta a partire da un bassorilievo o con altre tecniche note), sulla quale nessuno finora ha potuto dire l’ultima parola.