Sulle strade afghane ci sono due milioni di bambini orfani, privi di qualsiasi opportunità. È anche per loro che noi dobbiamo diventare leader del nostro Paese. Possiamo farlo, perché abbiamo una marcia in più, ci hanno insegnato a vivere tutti insieme in pace e armonia». È determinata Manhiza, vent'anni, iscritta al secondo anno di legge all'università di Kabul. È la prima diplomata degli orfanotrofi gestiti dalla Ong Afceco (Afghan child education and care organization), fondata e diretta da Andeisha Farid, e sostenuta in Italia dal Cisda, organismo di coordinamento di alcune associazioni impegnate in Afghanistan «nella promozione di progetti di solidarietà in favore delle donne», come spiega la presidente, Caterina Cattafesta. Serve tutta la determinazione di Manhiza per cambiare un Paese, che non ama molto né le sue donne, né i suoi figli.
Proprio ai bambini afghani è rivolto il progetto L'Aquilone, dell'associazione culturale “Liberi Pensieri” di San Giuliano Milanese, arrivato alla quinta edizione. Verranno in Italia in otto, tre maschi e cinque femmine, di 14 anni, e vi trascorreranno gennaio e febbraio 2013, due mesi in cui le scuole in Afghanistan sono chiuse. I ragazzi saranno ospiti di otto famiglie tra San Giuliano e Piadena (Cremona), che entra così per la prima volta nel progetto.
«Vogliamo dare loro l'opportunità di essere inseriti in una quotidiana normalità, quella che nel loro Paese non è possibile», dice Piera, referente di “Liberi Pensieri”. Perché in Afghanistan la loro normalità è fatta di esplosioni, rumore di elicotteri che fa tremare i muri delle case, spari. Provengono da tutto il Paese, dai villaggi montuosi del Nuristan alle zone desertiche della provincia di Farah. Gli orfanotrofi sono luoghi protetti, ma qualche volta anche lì la paura prende il sopravvento. È quando di notte la polizia fa irruzione, magari con la scusa che lì si insegna la religione cattolica o che non si rispettano le tradizioni, o che si va contro la morale.
Perché negli orfanotrofi Afceco, maschi e femmine studiano insieme, il velo non si usa e le ragazze giocano a calcio in pantaloncini corti. E poi ci sono tante altre attività “sospette”: la ginnastica, le arti marziali, la danza, il teatro, il canto, la musica, l'artigianato, la pittura, lo studio della lingua inglese. Il Governo li tollera perché chiuderli significherebbe una pessima figura di fronte al mondo, ma ritiene che sia necessario tenerli sotto pressione. E per i piccoli ospiti la tensione è continua. Quando ti confronti con bambini che hanno subito grossi traumi, subito non te ne accorgi. È poi nel tempo, quando aumenta la sintonia, che cominci a percepire che qualcosa non va. Troppe emicranie, troppi mal di pancia “immotivati”, stanchezza, svogliatezza.
«Sappiamo poco di quello che hanno alle spalle. I ragazzi non amano molto raccontarsi, però è bello vedere, come giorno dopo giorno, cominciano a fidarsi», dice Claudio, impiegato in pensione, coinvolto nell'ospitalità. Il soggiorno in Italia è importante, ma lo è anche far conoscere al mondo la situazione dei bambini e ragazzi afghani (la metà della popolazione è sotto i 18 anni). Lo sa bene la direttrice di Afceco, Andeisha, arrivata fino a Barack Obama, per spiegargli che «La strada del cambiamento positivo passa attraverso la sicurezza, la salute e la possibilità di andare a scuola». Il presidente ne è rimasto talmente colpito, da citare in un suo discorso l'esperienza di questa giovane donna “che si è assunta il rischio di educare le nuove generazioni”.
Quando sento parlare di accoglienza temporanea di bambini stranieri in difficoltà, mi chiedo sempre quale sia la diversità rispetto ad altri progetti. «Nel nostro caso – risponde Piera – bisogna fare una premessa. I ragazzi che vivono negli orfanotrofi – 12 in tutto l'Afghanistan, ciascuno accoglie 50, 60 bambini, a partire dai sei anni, per un totale di circa 700 -, non sono sempre orfani. Molti hanno un genitore, o entrambi, di sicuro hanno fratelli e sorelle, o qualche altro familiare. Provengono da regioni povere, magari ancora in mano ai talebani, e allora la famiglia sceglie di mandarli a studiare altrove, con grandi sacrifici. Si rendono conto che solo l'istruzione può dare loro una speranza».
Il progetto Afceco è rivoluzionario, perché l'istruzione va di pari passo con la formazione civica e l'apertura mentale, non solo perché maschi e femmine studiano insieme fino alla maggiore età, in un Paese dove la donna cammina ancora dietro all'uomo, ma anche perché contempla tutte le etnie: tagiki, pashtun, hazara, uzbeki, nurestani, convivono e si aiutano. Tutti insieme cucinano, puliscono e tengono in ordine le stanze. E poi si studiano la democrazia, la pari dignità, l'uguaglianza dei diritti e la promozione della donna. Per questo nei corridoi non è strano sentir discutere della Costituzione afghana.
«Le ragazze sono un po' privilegiate - dice ancora Manhiza -, perché per loro la vita è più dura, soprattutto nelle zone rurali, dove l''87 per cento sono analfabete, prive di assistenza sanitaria, e trattate come schiave da mariti e fratelli. Molte sono costrette a indossare il burqa e anche nelle grandi città è sconsigliato girare senza. Così, mentre i maschi, raggiunti i 18 anni, devono lasciare l'orfanotrofio, alle ragazze è concesso di restare finché ne avranno bisogno . Diventeranno giornaliste, ingegneri, medici, docenti, politici..., pronte a formare la nuova classe dirigente».
«Serve una generazione di donne forti, consapevoli dei propri diritti, determinate a conquistarli e a farli rispettare», aggiunge Caterina Cattafesta. «La tolleranza e la democrazia in Afghanistan languono - conclude Manhiza -. Non c'è legge e la corruzione è altissima. Questo Paese non ha mai smesso di essere in guerra. Molto spesso le bombe arrivano su villaggi dove ci sono donne e bambini e uomini poveri, con l'unica “colpa” di avere la barba e indossare il turbante. Ma la voce di queste persone non la sente nessuno, perché nei villaggi non arrivano giornalisti imparziali. La voce che sempre risuona è quella “ufficiale”, degli eserciti stranieri, che dicono di aver bombardato una postazione di talebani o insorgenti. E la gente dice basta».
In Afghanistan ti guardi attorno e le persone ti sembrano simili, la fisionomia riconoscibile, finché non incappi in qualcuno con “il naso schiacciato e gli occhi a mandorla”. Si dice che discendano da Gengis Khan (che nel 1222 invase l'Afghanistan, ndr), e infatti i tratti ricordano quelli mongoli. È l'etnia hazara, la più vituperata e perseguitata, considerata inferiore dai pashtun, l'etnia maggioritaria. Poi però si scopre che, oltre all'antropologia, c'entra la religione: gli hazara sono musulmani sciiti, quindi odiati dai talebani, che sono sunniti. Un odio di cui ha fatto le spese Enaiatollah Akbari, giovane hazara, fuggito dall'Afghanistan, e che oggi vive a Torino. Venerdì 5 ottobre, alle 9.30, sarà a San Giuliano Milanese (al cinema Ariston, in via Matteotti), nell'ambito delle iniziative del Cisda, per raccontare ancora una volta la sua storia, che è diventata la trama del romanzo Nel mare ci sono i coccodrilli, scritto da Fabio Geda, per Baldini e Castoldi editore. Il libro è uscito nel 2010, è stato tradotto in oltre 30 lingue e sarà la trama di un film diretto da Francesca Archibugi. Da allora la vita di Enaiatollah è cambiata: è stato intervistato da giornali e televisioni e chiamato a portare la sua testimonianza nelle scuole.
«Ho partecipato a più di 500 incontri ed è stancante» dice. «Ma devo farlo, perché le persone che ho di fronte cambiano. Io non cerco compassione, ho avuto la mia vicenda, le mie sofferenze, ma ne sono uscito. Però c'è chi si trova ancora nella mia situazione, e la gente deve sapere. Se, davanti a un grande pubblico, riesco a trasmettere qualcosa, e almeno due persone cominciano a comprendere, è già un risultato».
Enaiat è nativo di Nava, città situata nella provincia di Ghazni, nel sud-est dell'Afghanistan. Si tratta di una zona dove l'instabilità politica è accentuata, e dove spesso si verificano bombardamenti, sparatorie, attentati e le strade sono disseminate di mine e ogni genere di ordigno. Ha appena dieci anni Enaiat quando diventa “merce di scambio” per saldare un debito paterno. La madre sa che non c'è modo di salvarlo se non lasciandolo andare. «Non far uso di droghe, non impugnare armi, non rubare. Khoda negahar, addio». Dieci anni in Occidente sono pochi, ma in Afghanistan si diventa adulti presto. Comincia per Enaiat un'odissea, che nulla ha di fantastico, ma che sa di botte, strada e fame. Il futuro è un pensiero lontano, la parola d'ordine è sopravvivere.
Che rapporto hai con la paura?
«La paura mi è stata compagna per tanto tempo. Oggi la paura resta ma, come dice Jung, è anche una risorsa. Se hai paura, stai più attento e rischi di meno. Anche se io ormai mi butto anche quando una cosa è rischiosa».
Perché Enaiat la morte l'ha vista in faccia più volte. Come quando per arrivare in Iran ha dovuto affidarsi ai trafficanti di uomini, oppure quando, per raggiungere la Turchia, è rimasto chiuso nel doppio fondo di un camion - “groviglio di carne” - per tre giorni, dividendo cinquanta centimetri di spazio con altre ottanta persone. Per non parlare di quando si è gettato in mare per raggiungere la Grecia. Una traversata rischiosa perché, dice Hussein Alì, uno dei ragazzini che si tuffa con lui, “nel mare ci sono i coccodrilli”». Otto anni di calvario, poi Eniat “approda”: l'Italia, Venezia, un affido e un permesso di soggiorno. Una nuova prospettiva, la scuola, la speranza...
Qual è stato il momento peggiore?
«Non c'è un momento peggiore. Ogni passaggio, ogni giorno è stato utile. Non so dirti cosa mi ha fatto soffrire di più. È stata una sofferenza continua dover nascondermi sempre da tutti. È la condizione dell'immigrato. Non c'è più sulla Terra uno spazio per te, un luogo che ti accolga. La Grecia non ci dava il permesso di soggiorno. I poliziotti mi inseguivano col manganello e io scappavo, scappavo. Chi ti vede correre, pensa che sei un delinquente e invece non lo sei. Ogni esperienza, per quanto terribile, mi è stata utile. Ogni cosa che ho fatto ha avuto un senso».
Che cosa pensi della religione?
«Io sono agnostico, cioè semplicemente non credo, non so darmi una risposta sulle cose inspiegabili. Per me gli esseri viventi sono tutti uguali, uomini, animali e piante, perché tutti per vivere abbiamo bisogno di ossigeno. Non ho rabbia nei confronti della religione, anche se penso che sia il motivo della rovina del mio Paese. La religione abusa dell'ignoranza delle persone. A questo proposito, mi sento più in sintonia con Marx. Però una precisazione va fatta: la fede, se resta nell'ambito personale, va bene. Il problema sorge quando la religione si interessa meno delle anime e più di questioni politiche ed economiche».
Cos'è l'Afghanistan oggi?
«Un Paese in ginocchio. La confusione è totale. Chi è il nemico? Chi l'amico? Non si capisce più nulla. La gente non ne può più degli stranieri. Cambiano le parole, ma la sostanza è la stessa. Ci sono stati l'imperialismo e il comunismo, adesso sono venuti a portare la democrazia. Ma la democrazia non si insegna. Ogni Paese deve assumersi le proprie responsabilità. Gli afghani sono stanchi di subire la guerra. Non è il mio popolo che fa la guerra, perché i talebani non sono afghani, sono fondamentalisti».
Se ne andranno le forze internazionali?
«Certo, così come se ne sono andate dalla Somalia, quando hanno capito che non c'era più nulla da prendere. Quando avranno ottenuto il loro scopo, che non c'entra nulla con il bene dell'Afghanistan, se ne andranno».
Del governo cosa pensi?
«Karzai è un fantoccio, un burattino. Assieme a lui siedono i signori della guerra. La corruzione è altissima, nessuno viene valutato per le sue capacità. Questo è il fallimento di un Paese».
Che cosa serve all'Afghanistan?
«Bisogna lasciare spazio alle menti pulite, che non coltivano l'odio, che non usano i ricordi dolorosi come pretesti per non chiudere mai con il passato. C'è bisogno di persone come Malalai Joya (attivista afghana, ndr), che ha avuto il coraggio di denunciare che chi si è macchiato di sangue continua a stare al potere. Io volevo studiare filosofia, la mia passione, ma ho scelto scienze politiche, sperando di poter un giorno tornare in Afghanistan per mettermi al servizio del mio Paese».
Che cosa dici ai ragazzi quando vai nelle scuole?
«Spiego loro che è necessaria la convivenza. La politica divide le persone e crea categorie: destra, sinistra, centro... Finché si finisce con l'odiarsi gli uni con gli altri. Invece, la politica dev'essere confronto, possibilità di scelta, ricerca del bene per il popolo».
Cinquanta capre per 50 donne, ovvero 50 famiglie che potranno provvedere a sé stesse. È il “Regalo senza frontiere” che “Insieme si può...”, una rete di ottanta gruppi solidali, distribuiti prevalentemente nel territorio della provincia di Belluno, fa annualmente alle donne afghane, quelle più emarginate, discriminate, che vivono nei luoghi più miseri, in zone impervie, in mezzo alle montagne, per le quali la sopravvivenza è legata agli aiuti, anche solo a una capra, che può diventare un tesoro prezioso.
Carla Dazzi, responsabile del progetto, in Afghanistan ci va dal 2002. Puntuale, ogni anno, per assistere personalmente alla consegna delle capre. «Perché non c'è niente di più bello che vedere la felicità negli occhi di queste donne, mentre ricevono un dono, per noi insignificante, ma per loro straordinario». La selezione delle destinatarie è fatta in collaborazione con Hawka (Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan) e Rawa (Revolutionary Association of the Women of Aghanistan), due associazioni locali, che si battono per i diritti delle donne.
«Il miglioramento della condizione femminile - afferma Selay Ghaffar, direttrice di Hawka, in Italia per un ciclo di incontri di sensibilizzazione - è divenuto parte dell'agenda politica, ma questo non ha comportato evoluzioni in positivo, perché chi sta al governo sono ex criminali di guerra, per i quali diritti umani sono parole vuote di significato. E non vi è alcun monitoraggio delle Nazioni Unite sulla reale applicazione delle risoluzioni che la comunità internazionale chiede al governo afghano per il rispetto delle donne. Del resto, nessuno dei governi che dichiara di voler affermare i diritti delle donne in Afghanistan, investe denaro per sostenere gli stessi diritti nel proprio Paese. Infine, la corruzione fa sì che, anche la presenza delle donne al governo, imposta come quota rosa, lasci spazio solo a quante sono legate da rapporti di parentela con gli attuali ministri».
E poiché l'agenda politica langue anche per quanto riguarda gli investimenti in infrastrutture sociali, bisogna ripartire dal concreto. Ecco allora l'iniziativa “Una capra per le donne afghane”. Quest'anno alcuni animali sono stati consegnati a Sharat Khorazan, un quartiere povero, privo di elettricità, nella zona est di Kabul. Dove la scuola è trascurata dallo Stato, gli insegnanti spesso disertano le lezioni perché non sono pagati, e mancano persino gli oggetti di cancelleria. Altri animali sono stati regalati a donne di Bamiyan, 250 chilometri circa da Kabul, il paese dei Buddha, distrutti a marzo 2001 dai talebani. Situato a 2.500 metri di altezza, è proprio un “posto da capre”. Le ultime diciassette sono andate ad Arghandai, nella provincia di Kandahar, ex roccaforte dei talebani, che rimane uno dei luoghi “caldi” del Paese. «Abbiamo dovuto fare tutto piuttosto in fretta, la consegna e via, perché molti dei villaggi dove ci siamo recati, non sono sicuri - continua Carla. Il rapimento di stranieri fuori Kabul va “molto di moda”.
Una capra affidata a una donna significa valore in termini di microcredito e serve al sostentamento della famiglia: dà latte, mette al mondo capretti, produce sterco da usare come combustibile. Le capre vengono acquistate in Tagikistan, al prezzo - elevato - di 250 euro l'una. Sono tra i pochi animali in grado di sopravvivere in terre aride e impoverite. «Potrebbero campare d'immondizia» dice la Dazzi. «Sono, inoltre, animali estremamente produttivi e funzionali».
C'è pure un valore simbolico. «Le donne sono sostenute nel recupero, non solo dell'autonomia economica, ma anche dell'autostima e della dignità personale, con un ulteriore risvolto positivo. Gli uomini di Bamiyan si sono offerti di lavorare gratuitamente per contribuire alla causa della nostra associazione, riconoscendo così tacitamente il diritto delle loro donne alla gestione di un piccolo capitale. Inimmaginabile in un Paese dove un uomo che asserisce la parità dei sessi, può anche essere incarcerato per blasfemia».
Se qualcuno volesse aderire al progetto, può rivolgersi all'associazione: 0437/291298
e-mail: insiemesipuo@365giorni,org;
sito web: www.365giorni.org