Il 23
gennaio, ad Addis Abeba, è stato firmato il cessate il fuoco in Sud
Sudan, tra i rappresentanti del presidente Salva Kiir e del suo
rivale storico, l’ex vicepresidente Riek Machar. Si è trattato di
un primo accordo. Altri ulteriori colloqui sono ripresi nella
capitale etiope il 7 febbraio. Nel frattempo, l’Igad,
l’organizzazione degli Stati del Corno d’Africa che sta mediando
tra le parti, ha deciso l’invio di militari dal Sudan, Gibuti,
Eritrea, Etiopia, Kenya e Uganda per verificare la tenuta della
tregua.
Ma
non sono passati che pochi giorni, e il 18 febbraio le truppe fedeli
all'ex vicepresidente Riek Machar hanno attaccato Malakal,
capoluogo dello stato di Upper Nile.
Nel
Paese, la situazione è in parte migliorata, ma si continuano a
registrare sporadici combattimenti, soprattutto negli Stati dell’Alto
Nilo e di Jonglei. Ovviamente, entrambe le parti si accusano a
vicenda di violare la tregua e di crimini contro i civili. Per
esempio, dopo la riconquista di Malakal, un portavoce di Machar ha
accusato i governativi, di etnia dinka, di aver commesso atrocità
contro i civili appartenenti agli altri gruppi etnici (nuer, shilluk
e dinka bor), cercandoli casa per casa. Mentre altre fonti hanno
riportato di miliziani antigovernativi che sono entrati negli
ospedali per uccidere i feriti.
Da ambo le parti, i Vescovi cattolici
e l’Unicef hanno segnalato l’utilizzo di bambini soldato ed
Elisabetta D’Agostino del Comitato Collaborazione Medica dice:
«Fino a una settimana fa, sulla strada tra Mingkaman e Juba, si
incontravano camion pieni di ragazzi appena reclutati, diretti verso
la capitale per un breve addestramento e poi spediti a Bor, a
rafforzare le truppe governative. Dai camion li abbiamo sentiti
cantare, festosi… entrare nel loro ruolo».
La
situazione era precipitata il 15 dicembre, quando il generale Kiir
aveva incarcerato 11 politici accusati, insieme a Machar, di golpe e
di tradimento contro lo Stato. La lotta politica era presto diventata
uno scontro etnico tra i dinka di Kiir e i nuer del rivale. Il 30
gennaio, 7 di loro sono stati scarcerati e trasferiti a Nairobi,
sotto la custodia del presidente keniano Kenyatta. Machar, alla
macchia dallo scorso dicembre, ha parlato di «una buona notizia».
Non si sa
quanti morti abbia causato oltre un mese di combattimenti,
sicuramente alcune migliaia; Enrica
Valentini,
direttrice del Catholic Radio Network, che raggruppa le radio
cattoliche, spiega: «Non
tutte le zone sono accessibili al governo o ad altre istituzioni,
quindi una stima attendibile delle vittime rimane praticamente
impossibile. Chi raggiunge gli ospedali e muore lì viene registrato,
ma quanti perdono la vita in aree rurali o poco accessibili sono
praticamente abbandonati a se stessi».
Uno dei campi profughi Unicef nati in queste settimane in Sud Sudan (Questa e la foto di copertina sono Unicef/Crowe).
Padre Daniele Moschetti: "Alcune zone sono rase al suolo e bisognerà ricominciare completamente da zero".
Quello
che è certo – spiega padre Daniele Moschetti, provinciale dei
missionari comboniani – «è che, tra saccheggi e razzie, alcune
zone sono rase al suolo e bisognerà ricominciare completamente da
zero. Ai morti, si aggiungono poi i segni che l’odio e la violenza
di queste settimane stanno scavando tra i diversi gruppi».
Le zone
più distrutte sono i tre Stati petroliferi (Unity, Alto Nilo,
Jonglei), dove prima della guerra si estraevano 350.000 barili al
giorno (il 98% delle entrate nell’Unity), con le concessioni
principali a un consorzio a capitale cinese, malese e indiano. Ora la
produzione è scesa a 50.000 barili al giorno. Su queste zone,
passate di mano in mano tra governativi e ribelli in più occasioni,
non mancano gli interessi esteri: il Sudan, che può contare su un
oleodotto che sbocca nel mar Rosso, e l’Uganda, con il progetto di
un nuovo oleodotto fino a Mombasa, in Kenya. Proprio l’aviazione e
l’esercito ugandese sono scesi in campo a fianco del generale Kiir.
Sempre
Padre Moschetti sottolinea la gravità di chi ha perso tutto: «Gli
sfollati sono ormai oltre 800 mila, più di 100 mila hanno passato la
frontiera con l’Uganda, l’Etiopia, il Kenya e il Sudan. Noi
rimaniamo accanto al popolo; a Leer, 4 suore e 5 preti comboniani
hanno appena evacuato la missione, fuggendo nella foresta».
In tutto
il Sud Sudan, le Chiese cristiane e alcune ong sono in prima linea
nel soccorrere i civili, accampati tra gli alberi, rifugiati in
parrocchie, nei campi dell’Unmiss
(la missione Onu per il Sud Sudan), negli orfanotrofi o nei villaggi
dove non ci sono scontri. I comboniani, in Sud Sudan fin dalla
loro fondazione nel 1867, hanno missioni sia tra i nuer, sia tra i
dinka, e hanno appena lanciato «un appello a pregare per la pace e a
contribuire con donazioni per far fronte all’emergenza umanitaria
immediata e alla ricostruzione sul lungo periodo».
Missionari
Comboniani
Per
contribuire, scrivere a ssmccj@gmail.com;
tel. 051432013. www.combonisouthsudan.org.