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lunedì 21 aprile 2025
 
 

Tamburi di guerra in Sud Sudan

28/12/2013  Centinaia di vittime in pochi giorni. Le due principali etnie del Paese si fanno guerra. Il Paese è a un passo dalla guerra civile generalizzata. Ma si cercano tutte le vie per la pacificazione e il dialogo. Parla padre Daniele Moschetti, provinciale dei missionari comboniani in Sud Sudan.

Il Sud Sudan è uno dei Paesi per cui, nel messaggio di Natale, Papa Francesco ha invitato a pregare perché cessi la violenza. Nel più giovane Stato al mondo, staccatosi dal Sudan nel luglio 2011, il 15 dicembre 2013 c’è stato un tentativo di golpe, del quale il presidente, generale Salva Kiir, ha attribuito la responsabilità al suo rivale storico – ed ex vicepresidente fino a luglio 2013 – Riek Machar.

Sono seguiti un paio di giorni di uccisioni, scontri a fuoco e civili in fuga: in molti casi, sono diventati scontri etnici tra i dinka di Kiir (e dell’eroe dell’indipendenza John Garang) e i nuer di Machar. Nel frattempo, il sottosegretario di Stato americano Kerry ha chiesto la fine delle ostilità, mentre l’Onu (due soldati indiani sono stati uccisi e uno ferito gravemente ad Aboko) ha raddoppiato i militari della sua missione di pace da 6.000 a 12.000 soldati.

Secondo Toby Lanzer, capo della missione umanitaria delle Nazioni Unite, i morti accertati sono «migliaia in solo una settimana» e la situazione sta sfuggendo di mano.

Ne parliamo con padre Daniele Moschetti, provinciale dei missionari comboniani, che è appena rientrato da una visita ad uno dei campi Unmiss (la missione Onu per il Sud Sudan) per gli sfollati nuer della capitale Juba.

– Qual è la situazione?

«In questi ultimi giorni, qui a Juba è abbastanza tranquilla; non è stato possibile celebrare la Messa di mezzanotte in tutta la diocesi per motivi di sicurezza, c’è il coprifuoco dalle sei di sera alle sei di mattina e ogni tanto si sentono degli spari, ma la gente continua a lavorare e vivere la propria vita. Dopo le bombe e gli spari del 15 dicembre e la dissennata ricerca di nuer casa per casa, con oltre 500 morti in 48 ore, la tensione si è spostata in altre regioni. C’è un segno che indica l’aggravarsi della situazione: sono state trovate le prime fosse comuni. Due a Juba, una terza a Bentiu, quest’ultima però non è stata confermata dalle Nazioni Unite. Abbiamo poi una forte emergenza per gli sfollati: sono quasi 100 mila, molti hanno passato il confine con Etiopia, Kenya o Uganda, mentre 45 mila si sono rifugiati nelle caserme dell'Onu. A Juba, sono due: è successo tutto velocemente e non è facile organizzare l’accoglienza. Mancano tende, di giorno si arriva a 40 gradi, ma di notte donne e bambini soffrono il freddo e le malattie possono diventare letali. Qui sono stati portati anche i 5 mila sfollati che si erano rifugiati per una settimana nella cattedrale di Santa Teresa. Nelle città fuori dalla capitale in cui si combatte, manca il cibo e scattano i saccheggi. D’altro canto, le strade in giro per il Paese sono un disastro e soltanto una è asfaltata, quella che va verso l’Uganda, la mobilità non è facile, lo spazio aereo è limitato e quindi le distribuzioni di alimenti e altro materiale di assistenza non sono facili».

Gli scontri si sono spostati negli Stati petroliferi

– In quali zone si sono spostati gli scontri?

«Nei tre stati petroliferi (Unity, Alto Nilo, Jonglei), perché chi comanda qui, ha il potere nell’intero Paese. Nei primi due stanno prevalendo Machar e i suoi alleati, mentre la vigilia di Natale il presidente Kiir ha riconquistato Bor, la capitale del Jonglei; quest’offensiva ha portato a moltissimi morti e nuove persone in fuga. Invece a Malakal, capitale dell’Alto Nilo, gli scontri interetnici non sono più solo tra nuer e dinka, ma coinvolgono ora anche un altro gruppo etnico come gli shilluk».

– Siamo di fronte a una guerra etnica?


«Purtroppo sembra di sì, tutto era nato come uno scontro meramente politico: Machar e altri dieci uomini dell’opposizione, di etnie diverse, avevano accusato Kiir di malgoverno e di voler trasformare il Sud Sudan in una dittatura. Ma negli ultimi giorni la piega etnica ha preso il sopravvento. Per il momento gli scontri non hanno coinvolto le altre etnie minoritarie, a eccezione degli shilluk maggioritari nella città di Malakal. Dove i dinka (3 milioni in totale, con un grande peso politico, militare e sociale) sono maggioritari, disarmano e in alcuni casi uccidono i soldati nuer e anche i civili com'è successo qui a Juba. Viceversa, dove sono i nuer (1 milione) la maggioranza, succede il contrario».

– La comunità internazionale come si sta muovendo?

«Abbastanza bene. Le Nazioni Unite stanno garantendo delle zone neutre dove rifugiarsi per sfuggire al pericolo, provando a organizzare velocemente i soccorsi per gli sfollati. Le stesse Nazioni Unite, UE, Usa, African Union, Comunità dell’Est Africa e Igad stanno premendo per avviare le trattative di pace tra i due leader in conflitto. Salva Kiir, più disponibile alla diplomazia occidentale, ha annunciato che è pronto a partecipare, mentre Machar nicchia. L’impressione è che Machar voglia arrivare al negoziato con il pieno controllo dei tre stati petroliferi, per avere un forte potere contrattuale, mentre Salva Kiir, per lo stesso motivo, stia cercando di riconquistare le zone perdute nella stessa area. Il ruolo del Sudan invece non è chiaro: le dichiarazioni ufficiali di Bashir sono di sostegno a Salva Kiir per la sicurezza anche dei confini con il Sudan, ma ha sempre mostrato e dichiarato che un giorno il Sud Sudan ritornerà indietro sui suoi passi. Addirittura c’è chi dice che stia trattando con Machar e i suoi sostenitori, che già riceverebbero sostegni militari. Non sarebbe poi vista come un’alleanza strana, perché nella storia di questo Paese ci sono già stati eventi che hanno portato nel 1991 Machar, che fin da allora aspirava al potere nel Sud Sudan, ad accordarsi con Khartoum. Per questo, molti dinka, e non solo, lo hanno già considerato in passato un traditore dei popoli del Sud».

Le Chiese, anche per il ruolo avuto per raggiungere l’indipendenza, hanno grande autorevolezza e credibilità

  

– Vedendo quello che sta succedendo, è stato giusto sostenere l’indipendenza del 2011?

«Credo fortemente all’indipendenza. Ha messo fine a una guerra che ha fatto due milioni e mezzo di morti ed è durata più di 40 anni, dal 1956 al 1973 e dal 1983 al 2004. Le risorse del Sud Sudan che sono tante, venivano sfruttate esclusivamente dal Nord Sudan. Così era per il petrolio (questo è il terzo giacimento in Africa) che, pur trovandosi al 70% al Sud, finanziava solo il Nord mentre i cittadini del Sud si sono sempre visti derubati delle loro risorse, senza vedere alcun beneficio per la loro regione. La Chiesa Cattolica e le altre Chiese, tutti i vescovi e il vescovo comboniano di Rumbek Cesare Mazzolari (scomparso due anni fa, ndr) hanno avuto un ruolo importante nel far conoscere in Italia questa situazione, nel far pressione internazionale perché finisse una guerra assurda e preparare la pace e successivamente l’indipendenza. Certo il futuro del Paese non può costruirsi solo sugli impianti petroliferi, serve puntare anche sulle altre risorse come l'agricoltura, l'allevamento di bestiame con nuove tecniche, la pesca, e l'aiuto ai giovani e alle donne nell'educazione e nell'autodeterminazione perché possano essere protagonisti del loro futuro. Va tenuto presente che a oggi solo il 25% dei sud sudanesi è andato a scuola e, fino al trattato di pace del 2005, la gente non poteva muoversi dai propri villaggi, né incontrarsi e conoscersi. Se non ci si parla, i pregiudizi etnici non possono che essere forti. I traumi delle guerre ancora rimangono nella popolazione del Sud Sudan che ha visto davvero la morte di milioni di persone, ma anche milioni di persone che sono fuggite in altre Paesi per evitare di essere annientati. Ci vorrà un grande cammino di comunione e di pazienza reciproca tra le diverse etnie. D’altronde, anche noi italiani sappiamo che l’Italia ha impiegato parecchio tempo a costruire la propria nazione come Stato democratico e ancora oggi abbiamo ancora qualche problema di autonomie legate più ad interessi economici e di potere che culturali. La crisi di questi giorni dovrebbe insegnarci che ci vuole più coinvolgimento di tutte le etnie ai vari livelli, governativo, economico, sociale, culturale, militare. Altrimenti il rischio è che le due etnie dominanti possano avere il controllo della situazione e fare il bello e cattivo tempo, che dipenderebbe così dal livello di relazione positive o negative tra queste due forze più grandi. E gli altri sarebbero soltanto spettatori di una possibile guerra che potrebbe coinvolgerle tutte. Ed è ciò che sta succedendo in questi giorni».

– Qual è il ruolo della Chiesa di fronte alla crisi?


«Le Chiese, anche per il ruolo storico avuto per raggiungere l’indipendenza, hanno una grande autorevolezza e credibilità. Si sono già offerte sin dall’inizio del conflitto per mediare un dialogo di pace e riconciliazione tra le due parti. Attendiamo la risposta. Nel frattempo si sta cercando di portare avanti dialoghi personali con i vari gruppi. Kiir è cristiano cattolico praticante e Machar protestante: devono dimostrare che sono cristiani non solo a parole, ma con atti concreti di verità, giustizia e solidarietà nei confronti di tutta la popolazione del Sud Sudan. E mettere davanti agli interessi privati e di potere il bene comune di tutta la nazione».

– A differenza di altri occidentali e di molte Ong, voi missionari comboniani avete scelto di restare nonostante il pericolo della vita.

«Purtroppo abbiamo visto molte realtà che si occupano di emergenza e delegazioni diplomatiche di ambasciate evacuare nel giro di tre o quattro giorni, non appena l’emergenza è scoppiata. Mentre i religiosi e i missionari sono rimasti al loro posto in varie parti molto remote, un bellissimo segno di solidarietà e vicinanza alla gente e alle Chiese locali che continuano a lavorare per servire ed essere segno di speranza e unione per tutti. Noi missionari comboniani siamo qui dalla nostra fondazione nel 1867. San Daniele Comboni, il nostro fondatore, e moltissimi comboniani e combaniane hanno sempre amato profondamente questa gente e questa terra sudanese fino alla morte, in alcuni casi anche col martirio. Siamo parte della storia di questi popoli negli ultimi 150 anni. Abbiamo dovuto lasciare il Sudan in più di 400 sacerdoti, fratelli e suore, soltanto quando il governo islamico del Nord Sudan ci ha espulso, nel 1964. Oggi siamo 54 comboniani, 50 suore che operano per l’evangelizzazione e la promozione umana nell’educazione, sanità, formazione di giovani e donne, in varie regioni difficili e isolate, nelle paludi e nelle foreste. Anche l’arcivescovo di Juba, Paulino Lukudu Loro, è missionario comboniano. Il nostro rimanere qui ci sembra il modo più coerente per testimoniare il Vangelo e vivere l’annuncio dell’incarnazione di Dio per l’uomo, nel vivere profondamente il messaggio della rivoluzione dell’amore che Lui è venuto a condividere con noi. Cerchiamo di essere segni di speranza e di comunione con e per la gente, soprattutto in momenti di dolore, divisione e guerre».

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