Il
Sud Sudan è uno dei Paesi per cui, nel messaggio di Natale, Papa
Francesco ha invitato a pregare perché cessi la violenza. Nel più
giovane Stato al mondo, staccatosi dal Sudan nel luglio 2011, il 15
dicembre 2013 c’è stato un tentativo di golpe, del quale il
presidente, generale Salva Kiir, ha attribuito la responsabilità al
suo rivale storico – ed ex vicepresidente fino a luglio 2013 –
Riek Machar.
Sono seguiti un paio di giorni di uccisioni, scontri a
fuoco e civili in fuga: in molti casi, sono diventati scontri etnici
tra i dinka di Kiir (e dell’eroe dell’indipendenza John Garang) e
i nuer di Machar. Nel frattempo, il sottosegretario di Stato
americano Kerry ha chiesto la fine delle ostilità, mentre l’Onu
(due soldati indiani sono stati uccisi e uno ferito gravemente ad
Aboko) ha raddoppiato i militari della sua missione di pace da 6.000
a 12.000 soldati.
Secondo Toby Lanzer, capo della missione umanitaria
delle Nazioni Unite, i morti accertati sono «migliaia
in solo una settimana»
e la situazione sta sfuggendo di mano.
Ne
parliamo con padre Daniele Moschetti, provinciale dei missionari
comboniani, che è appena rientrato da una visita ad uno dei campi
Unmiss (la missione Onu per il Sud Sudan) per gli sfollati nuer della
capitale Juba.
– Qual
è la situazione?
«In
questi ultimi giorni, qui a Juba è abbastanza tranquilla; non è
stato possibile celebrare la Messa di mezzanotte in tutta la diocesi
per motivi di sicurezza, c’è il coprifuoco dalle sei di sera alle
sei di mattina e ogni tanto si sentono degli spari, ma la gente
continua a lavorare e vivere la propria vita. Dopo le bombe e gli
spari del 15 dicembre e la dissennata ricerca di nuer casa per casa,
con oltre 500 morti in 48 ore, la tensione si è spostata in altre
regioni. C’è un segno che indica l’aggravarsi della situazione:
sono state trovate le prime fosse comuni. Due a Juba, una terza a
Bentiu, quest’ultima però non è stata confermata dalle Nazioni
Unite. Abbiamo poi una forte emergenza per gli sfollati: sono quasi
100 mila, molti hanno passato il confine con Etiopia, Kenya o Uganda,
mentre 45 mila si sono rifugiati nelle caserme dell'Onu. A Juba, sono
due: è successo tutto velocemente e non è facile organizzare
l’accoglienza. Mancano tende, di giorno si arriva a 40 gradi, ma di
notte donne e bambini soffrono il freddo e le malattie possono
diventare letali. Qui sono stati portati anche i 5 mila sfollati che
si erano rifugiati per una settimana nella cattedrale di Santa
Teresa. Nelle città fuori dalla capitale in cui si combatte, manca
il cibo e scattano i saccheggi. D’altro canto, le strade in giro
per il Paese sono un disastro e soltanto una è asfaltata, quella che
va verso l’Uganda, la mobilità non è facile, lo spazio aereo è
limitato e quindi le distribuzioni di alimenti e altro materiale di
assistenza non sono facili».
Gli scontri si sono spostati negli Stati petroliferi
– In
quali zone si sono spostati gli scontri?
«Nei
tre stati petroliferi (Unity, Alto Nilo, Jonglei), perché chi
comanda qui, ha il potere nell’intero Paese. Nei primi due stanno
prevalendo Machar e i suoi alleati, mentre la vigilia di Natale il
presidente Kiir ha riconquistato Bor, la capitale del Jonglei;
quest’offensiva ha portato a moltissimi morti e nuove persone in
fuga. Invece a Malakal, capitale dell’Alto Nilo, gli scontri
interetnici non sono più solo tra nuer e dinka, ma coinvolgono ora
anche un altro gruppo etnico come gli shilluk».
– Siamo
di fronte a una guerra etnica?
«Purtroppo
sembra di sì, tutto era nato come uno scontro meramente politico:
Machar e altri dieci uomini dell’opposizione, di etnie diverse,
avevano accusato Kiir di malgoverno e di voler trasformare il Sud
Sudan in una dittatura. Ma negli ultimi giorni la piega etnica ha
preso il sopravvento. Per il momento gli scontri non hanno coinvolto
le altre etnie minoritarie, a eccezione degli shilluk maggioritari
nella città di Malakal. Dove i dinka (3 milioni in totale, con un
grande peso politico, militare e sociale) sono maggioritari,
disarmano e in alcuni casi uccidono i soldati nuer e anche i civili
com'è successo qui a Juba. Viceversa, dove sono i nuer (1 milione)
la maggioranza, succede il contrario».
– La
comunità internazionale come si sta muovendo?
«Abbastanza
bene. Le Nazioni Unite stanno garantendo delle zone neutre dove
rifugiarsi per sfuggire al pericolo, provando a organizzare
velocemente i soccorsi per gli sfollati. Le stesse Nazioni Unite, UE,
Usa, African Union, Comunità dell’Est Africa e Igad stanno
premendo per avviare le trattative di pace tra i due leader in
conflitto. Salva Kiir, più disponibile alla diplomazia occidentale,
ha annunciato che è pronto a partecipare, mentre Machar nicchia.
L’impressione è che Machar voglia arrivare al negoziato con il
pieno controllo dei tre stati petroliferi, per avere un forte potere
contrattuale, mentre Salva Kiir, per lo stesso motivo, stia cercando
di riconquistare le zone perdute nella stessa area. Il ruolo del
Sudan invece non è chiaro: le dichiarazioni ufficiali di Bashir sono
di sostegno a Salva Kiir per la sicurezza anche dei confini con il
Sudan, ma ha sempre mostrato e dichiarato che un giorno il Sud Sudan
ritornerà indietro sui suoi passi. Addirittura c’è chi dice che
stia trattando con Machar e i suoi sostenitori, che già
riceverebbero sostegni militari. Non sarebbe poi vista come
un’alleanza strana, perché nella storia di questo Paese ci sono
già stati eventi che hanno portato nel 1991 Machar, che fin da
allora aspirava al potere nel Sud Sudan, ad accordarsi con Khartoum.
Per questo, molti dinka, e non solo, lo hanno già considerato in
passato un traditore dei popoli del Sud».
Le Chiese, anche per il ruolo avuto per raggiungere l’indipendenza, hanno grande autorevolezza e credibilità
– Vedendo
quello che sta succedendo, è stato giusto sostenere l’indipendenza
del 2011?
«Credo
fortemente all’indipendenza. Ha messo fine a una guerra che ha
fatto due milioni e mezzo di morti ed è durata più di 40 anni, dal
1956 al 1973 e dal 1983 al 2004. Le risorse del Sud Sudan che sono
tante, venivano sfruttate esclusivamente dal Nord Sudan. Così era
per il petrolio (questo è il terzo giacimento in Africa) che, pur
trovandosi al 70% al Sud, finanziava solo il Nord mentre i cittadini
del Sud si sono sempre visti derubati delle loro risorse, senza
vedere alcun beneficio per la loro regione. La Chiesa Cattolica e le
altre Chiese, tutti i vescovi e il vescovo comboniano di Rumbek
Cesare Mazzolari (scomparso due anni fa, ndr) hanno avuto un ruolo
importante nel far conoscere in Italia questa situazione, nel far
pressione internazionale perché finisse una guerra assurda e
preparare la pace e successivamente l’indipendenza. Certo il futuro
del Paese non può costruirsi solo sugli impianti petroliferi, serve
puntare anche sulle altre risorse come l'agricoltura, l'allevamento
di bestiame con nuove tecniche, la pesca, e l'aiuto ai giovani e alle
donne nell'educazione e nell'autodeterminazione perché possano
essere protagonisti del loro futuro. Va tenuto presente che a oggi
solo il 25% dei sud sudanesi è andato a scuola e, fino al trattato
di pace del 2005, la gente non poteva muoversi dai propri villaggi,
né incontrarsi e conoscersi. Se non ci si parla, i pregiudizi etnici
non possono che essere forti. I traumi delle guerre ancora rimangono
nella popolazione del Sud Sudan che ha visto davvero la morte di
milioni di persone, ma anche milioni di persone che sono fuggite in
altre Paesi per evitare di essere annientati. Ci vorrà un grande
cammino di comunione e di pazienza reciproca tra le diverse etnie.
D’altronde, anche noi italiani sappiamo che l’Italia ha impiegato
parecchio tempo a costruire la propria nazione come Stato democratico
e ancora oggi abbiamo ancora qualche problema di autonomie legate più
ad interessi economici e di potere che culturali. La crisi di questi
giorni dovrebbe insegnarci che ci vuole più coinvolgimento di tutte
le etnie ai vari livelli, governativo, economico, sociale, culturale,
militare. Altrimenti il rischio è che le due etnie dominanti possano
avere il controllo della situazione e fare il bello e cattivo tempo,
che dipenderebbe così dal livello di relazione positive o negative
tra queste due forze più grandi. E gli altri sarebbero soltanto
spettatori di una possibile guerra che potrebbe coinvolgerle tutte.
Ed è ciò che sta succedendo in questi giorni».
– Qual
è il ruolo della Chiesa di fronte alla crisi?
«Le
Chiese, anche per il ruolo storico avuto per raggiungere
l’indipendenza, hanno una grande autorevolezza e credibilità. Si
sono già offerte sin dall’inizio del conflitto per mediare un
dialogo di pace e riconciliazione tra le due parti. Attendiamo la
risposta. Nel frattempo si sta cercando di portare avanti dialoghi
personali con i vari gruppi. Kiir è cristiano cattolico praticante e
Machar protestante: devono dimostrare che sono cristiani non solo a
parole, ma con atti concreti di verità, giustizia e solidarietà nei
confronti di tutta la popolazione del Sud Sudan. E mettere davanti
agli interessi privati e di potere il bene comune di tutta la
nazione».
– A
differenza di altri occidentali e di molte Ong, voi missionari
comboniani avete scelto di restare nonostante il pericolo della vita.
«Purtroppo
abbiamo visto molte realtà che si occupano di emergenza e
delegazioni diplomatiche di ambasciate evacuare nel giro di tre o
quattro giorni, non appena l’emergenza è scoppiata. Mentre i
religiosi e i missionari sono rimasti al loro posto in varie parti
molto remote, un bellissimo segno di solidarietà e vicinanza alla
gente e alle Chiese locali che continuano a lavorare per servire ed
essere segno di speranza e unione per tutti. Noi missionari
comboniani siamo qui dalla nostra fondazione nel 1867. San Daniele
Comboni, il nostro fondatore, e moltissimi comboniani e combaniane
hanno sempre amato profondamente questa gente e questa terra sudanese
fino alla morte, in alcuni casi anche col martirio. Siamo parte della
storia di questi popoli negli ultimi 150 anni. Abbiamo dovuto
lasciare il Sudan in più di 400 sacerdoti, fratelli e suore,
soltanto quando il governo islamico del Nord Sudan ci ha espulso, nel
1964. Oggi siamo 54 comboniani, 50 suore che operano per
l’evangelizzazione e la promozione umana nell’educazione, sanità,
formazione di giovani e donne, in varie regioni difficili e isolate,
nelle paludi e nelle foreste. Anche l’arcivescovo di Juba, Paulino
Lukudu Loro, è missionario comboniano. Il nostro rimanere qui ci
sembra il modo più coerente per testimoniare il Vangelo e vivere
l’annuncio dell’incarnazione di Dio per l’uomo, nel vivere
profondamente il messaggio della rivoluzione dell’amore che Lui è
venuto a condividere con noi. Cerchiamo di essere segni di speranza e
di comunione con e per la gente, soprattutto in momenti di dolore,
divisione e guerre».