Secondo l’ultima ricerca Istat solo una persona su cinque va a Messa. Ma c’è chi dice che sia un numero sovrastimato… «Temo che sia così…» commenta don Mario Stefano Antonelli, 62 anni, vicario episcopale per l'Educazione e Celebrazione della Fede della Diocesi di Milano.
Perché le persone non vanno più in chiesa?
«In primo luogo credo che ci sia un riferimento a Dio e al trascendente che è sempre meno sentito come determinante per le vicende della propria esistenza. Perché l’uomo e la donna contemporanei, sull’onda della modernità, si ritrovano proprio grazie a Dio a gestire autonomamente i passaggi e le responsabilità della vita. Che per altro vengono gestiti mediamente bene, con senso dell’alterità, con rispetto e con solidarietà dei più e piccoli e dei più poveri».
E per chi crede in Dio?
«Lì è la mediazione ecclesiale che fa problema per un calo sofferto della credibilità (scandali sessuali, ma anche mancanza di sobrietà); il terzo motivo è un’arretratezza di fondo della Chiesa rispetto a nodi nevralgici della contemporaneità. Mi riferisco al ruolo della donna, per fare solo un esempio. Ancora oggi, nonostante le grandi aperture di Francesco, fondamentalmente la donna è esclusa dal governo della Chiesa. Tra i fattori che possono spiegare questo calo di partecipazione pongo la domanda “in Chiesa cosa andiamo a fare”? Possiamo allenare la gente al senso della liturgia, ma poi quando poi viene in chiesa la facciamo giocare con un pallone sgonfio… Noi preti per primi arriviamo in chiesa per l’evento per eccellenza della vita Cristiana, che dovrebbe rendere nuova la nostra vita ma lo facciamo con uno stile e un linguaggio dei secoli passati… È inevitabile che dopo un po’ ci si stanchi… Io stesso mi sento forzato a scimiottare la lingua di un secolo che non è il mio. Credo, per ultimo, che nella Chiesa, nell’edificio vero e proprio, ci ritroviamo non poche volte a tante latitudini a celebrare senza l’ombra di vincoli comunitari significativi. Dentro delle bolle di solitudine e individualismo a volte ammantate di religiosità che non lasciano il gusto della vita nuova del Vangelo che è quella della carità fraterna, che fruttifica in relazioni di autentica fraternità. Questo ci fa dire, dopo un po’, che quella celebrazione non è così determinate».
Il calo è stato progressivo negli anni ma lo “scalino” più ampio si è registrato dal 2019 al 2020 con la perdita del 4% delle persone che andavano a Messa. È l'anno del Covid…
«La stagione pandemica ha solo accelerare e acuito un processo che era già in corso e di cui forse non eravamo disposti a verificarne la gravità e ad accettarla. La Pandemia ci ha messi con le spalle al muro e ci ha costretto ad aprire gli occhi. Speriamo di non richiuderli subito con un accanimento per forme ecclesiali che non hanno alcun fascino su menti, cuori e corpi soprattutto dei giovani, ma anche per l’età adulta quella delle responsabilità che a volte giungono all’improvviso (una relazione affettiva importante e promettente, una maternità, una paternità, un lavoro).
Nella Diocesi di Milano una delle più grandi al mondo i battesimi sono calati dai 37-38 mila degli anni 2000, ai 20mila attuali; per i matrimoni dai 18mila annui degli anni Novanta siamo passati agli attuali 4000…
«Questi numeri sono lo specchio dell’incapacità delle comunità cristiane di apprezzare e accompagnare quella stagione delicatissima della vita che è la prima età adulta in cui affronti le prime difficoltà, le prime frustrazioni, ma anche eventi eccezionali come la genitorialità. Abbiamo perso il treno, riferito il Vangelo di Gesù all’età infantile e alla terza età le due età che ti impongono in fondo una precarietà vistosa delle capacità. Lì dove l’età è quella delle responsabilità del vivere, a partire dai primi impulsi più basici ed essenziali (l’attrazione fisica che fiorisce nell’amore, l’incanto sempre più impegnativo del diventare madre e padre) lì il riferimento al Vangelo di Gesù non ti viene offerto come qualcosa di appetibile. Ecco allora perché ci si sposa sempre meno e sempre meno secondo il Vangelo inteso come spartito su cui si scandiscono i passi dell’amore».
don Mario Antonelli, 62 anni, vicario episcopale per l'Educazione e Celebrazione della Fede della Diocesi di Milano
La frequentazione delle Chiese si è ridotta per tutte le fasce di età; ma quella in cui è più evidente è quella dei giovani (18-24 anni) e degli adolescenti (14-17 anni).
«Nonostante le fatiche e una vistosa infruttuosità dei percorsi formativi (il catechismo) si va avanti così timorosi di osare vie nuove. Questo ci fa registrare non solo l’abbandono, ma proprio la fuga dalla partita del Vangelo già nei preadolescenti. Questo dovrebbe indurci a un supplemento di riflessione sulla parola della Chiesa che risulta incompatibile alle parole nuove che i giovani scoprono una volta usciti dalle elementari. La Chiesa dovrebbe mostrare come il Vangelo di Gesù viene a illuminare i cuori senza che io sia costretto a rifiutare delle parole o degli insegnamenti che vengono dalla scuola, dalla famiglia e dalla società. E poi dovremmo scalzare un’antica persuasione che la parola della chiesa sia ostile a questa istanza di libertà dell’adolescenza e ai suoi strappi rispetto al già noto. All’età in cui l’io fa la voce grossa, vuole conoscere, esplorare, abbracciare. Ancora oggi c’è la persuasione di una parola della Chiesa che frena, che mette in guardia, che definisce come peccato questo o quello».
Da dove si riparte?
«Dall’espressione stessa “andare in Chiesa o andare a Messa”; non ha senso invitare un altro o un’altra a venire con me in Chiesa se prima non ci accostiamo e accompagniamo questi fratelli e sorelle a percepire il tocco di Dio fuori dall’edificio. Evangelizzare vuol dire mostrare un esistere quotidiano che consenta e aiuti l’altro ad avvertire il tocco gentile, affettuoso e il profumo di Dio tutti i giorni a partire dalle relazioni ordinarie. L’affetto per un papà o una mamma che si stanno congedando dalla vita, la passione per la casa comune con la sua bellezza, l’esperienza della genitorialità. Finché ci limitiamo a forzare l’altro a cercare Dio dentro a un tabernacolo o su un altare, ma senza indicare il profumo di Dio nella vita quotidiana sarà sempre un fiasco. Bisogna ripartire da lì. Per troppi secoli abbiamo inteso la fede come un accompagnare in Chiesa l’altro. È il contrario: andiamo a ri-frequantare il mondo delle passioni, degli affetti, delle responsabilità! Lì dobbiamo sentire il profumo di Dio. Ricordando quello che Filippo fa con Natanaele (cap. I, Giovanni) “Vieni e vedi” che però prima è preceduto da “abbiamo trovato il Signore”. La chiesa in uscita è portatrice di un "vieni e vedi” che deve arrivare al punto di invitare l’altro all’Eucarestia, ma se manca “l’abbiamo trovato il Signore” - quindi la vita, la bellezza, la gioia - allora non ha senso dire “vieni e vedi”. Una bellezza che va trovata e mostrata dentro a un vissuto credibile. Per troppo tempo abbiamo creduto che bastasse un autoritario “Vieni e vedi”. Per quel che riguarda la Messa, infine, si tratta, senza rivoluzioni, di osare con libertà un’immaginazione e una celebrazione della liturgia che sia più densa ed essenziale. Osare con libertà evangelica, con maggior coraggio nel celebrare una Messa che faccia trapelare la gioia e non la mestizia nei gesti e nei canti. Una celebrazione dove sia chiaro il tono della gratitudine per la Grazia che viene accolta e non una supplica lagnante. E una liturgia che veda una reale partecipazione dell’assemblea e non una celebrazione che veda “il possesso palla” al 90% del prete e al 10 dell’assemblea che, invece, deve essere soggetto della celebrazione come dice il Concilio Vaticano II».