Ma davvero il presidente americano dai capelli rossi e quello russo dagli occhi di ghiaccio saranno amiconi? Davvero il “palazzinaro” Donald Trump e l’ex agente Vladimir Putin andranno d’amore e d’accordo? Curiosamente, tutti coloro che marchiavano come “gomblotto” ciò che riguardava i lati oscuri di Hillary Clinton, come i suoi legami (anche finanziari) con l’Arabia Saudita o la fine poco chiara di migliaia di e-mail sulla guerra contro Gheddafi del 2011, sono oggi pronti a credere che i maneggi degli hacker russi (e non gli elettori americani) abbiano fatto vincere Trump. E che non sia un “gomblotto” quanto afferma Barack Obama appoggiato dai direttori dell’intelligence da lui stesso nominati (e destinati a perdere il posto una volta che il nuovo presidente si sarà insediato), e cioè che Putin abbia in pratica deciso chi doveva diventare presidente negli Usa. Anzi: un certo numero di “esperti” prevede che l’America, a causa di Trump, sarà addirittura succube del Cremlino.
Obama pigia da mesi su questo pedale e per non sbagliare usa gli ultimi giorni da presidente per seminare trappole sulla strada del successore: accusa Putin in ogni modo, chiede all’Unione europea di rinnovare le sanzioni, espelle i diplomatici russi, lancia manovre militari ai confini con quello che, vedi definizione di Putin come “ex capo del Kgb”, considera ancora il Paese dei Soviet. Allineata e coperta la stampa, che ha sempre descritto Trump come un clown e se l’è ritrovato presidente degli Stati Uniti. Quando il prossimo inquilino della Casa Bianca ha scelto il petroliere Rex Tillerson, da dieci anni presidente e amministratore delegato di Exxon- Mobil, per il ruolo di segretario di Stato, il commento unanime è stato: ah, un amico di Putin. Anche se Tillerson gestisce risorse finanziarie ed energetiche superiori a quelle di molti grandi Stati e ha familiarità con capi di Stato e ministri di tutto il mondo. Tra questi anche Putin, che ha incontrato per enormi affari nel settore petrolifero, così caro anche al Cremlino. Contatti che gli hanno procurato, qualche anno fa, un’onorificenza per gli stranieri che incoraggiano i buoni rapporti con la Russia.
Per dirla con Alessandro Manzoni: «Così spesso va il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo» (Promessi Sposi, capitolo ottavo). In realtà, sulla relazione tutta baci e abbracci tra “Pel di Carota” e “Occhi di Ghiaccio” bisognerebbe essere più prudenti. Anche se ad avvicinarli c’è una certa necessità storica, la stessa che ha dato la spinta “culturale”, assai sottovalutata, alla campagna del magnate Donald Trump.
SISTEMA INCEPPATO
Dal 1989 a oggi la politica estera Usa è vissuta sulla teoria della “esportazione della democrazia” che fu formulata dal presidente George Bush senior subito dopo il crollo del Muro di Berlino, per essere poi replicata da Bill Clinton, George Bush junior e Barack Obama. Si capisce bene che un Paese che, come gli Usa, ha un debito pubblico di 20 mila miliardi di dollari, voglia garantirsi il controllo politico della massima parte del pianeta, con relative risorse naturali e finanziarie. Il problema è che ormai questo sistema si è inceppato. Niente “esportazione della democrazia” in Egitto, anche se Obama appoggiava i Fratelli musulmani. Niente in Ucraina, dove la Russia è intervenuta dopo il colpo di Stato che ha detronizzato il suo protetto Yanukovich. Niente in Siria, dove Bashar al-Assad è rimasto più o meno in sella.
L’onda di sfiducia rispetto a questa politica, oltre che l’insoddisfazione economica della borghesia Usa impoverita dalla crisi del 2008, ha messo le ali a Trump. Il quale, almeno negli annunci, vuol rovesciare l’equazione: sarà il benessere dell’americano medio, altrimenti definito “economia”, a guidare la politica. Quindi meno impegni militari (Linda Blaimes, economista di Harvard, ha calcolato che le guerre in Afghanistan e in Iraq costeranno ai contribuenti Usa tra i quattromila e i seimila miliardi di dollari) ma più grinta nelle relazioni commerciali. Ecco perché Trump non vuole il Ttip (il trattato tra Usa e Ue, con la Ue già ora in attivo sugli Usa di circa 100 miliardi di euro l’anno), vuole ridiscutere le relazioni commerciali con la Cina (che nel 2016 ha esportato negli Usa merci per 44,1 miliardi di dollari in più di quante ne abbia importate) e critica il Nafta (il trattato di libero scambio tra Messico, Usa e Canada). Trump e Putin, quindi, potranno anche decidere di bombardare insieme l’Isis o di mettere una pezza alla crisi in Ucraina, ma alla fin fine sarà il gioco degli interessi a decidere il loro tasso di amicizia.
L’ACCORDO SUL NUCLEARE
Se Trump vorrà davvero agitare le acque con la Cina non potrà sperare nell’aiuto di Putin, che con il regime di Pechino ha costruito una preziosa relazione privilegiata. Che farà Trump con la Turchia, oggi piuttosto allineata al Cremlino e, soprattutto, tornata al rapporto economico privilegiato che aveva costruito con la Russia prima della crisi? E l’Iran? Trump critica in modo aspro l’accordo sul nucleare stipulato da Obama nel 2015. Ma Putin non potrà permettere un ritorno all’isolamento del Paese degli ayatollah, alleato prezioso anche sul mercato del petrolio: sono state le pressioni russe e iraniane a convincere l’Opec a tagliare la produzione nel 2016, facendo così risalire il prezzo del greggio (e i loro incassi) come non accadeva da anni. E visto che si parla di energia: l’enorme giacimento di gas trovato dall’Eni nelle acque dell’Egitto è stato ceduto alla Russia al 30%. Quali saranno le azioni della nuova presidenza Usa in Medio Oriente? A chi faranno guadagnare o perdere posizioni?
È chiaro che, per ora, sia Trump sia Putin hanno tutto l’interesse a guardarsi con speranza e simpatia. Che cos’hanno da perderci? Ma al momento buono, se ci sarà appunto qualcosa da perderci, la simpatia potrebbe sciogliersi come neve al sole. Si chiama politica e interesse nazionale. A quei livelli, l’unica cosa che conta.
Foto Reuters