L'economista Andrea Monticini.
Il Wall Street Journal l'ha definita "la guerra commerciale più stupida della storia dell'economia mondiale". È davvero così?
«Non userei termini così drastici», spiega Andrea Monticini, ordinario di Econometria finanziaria all’Università Cattolica di Milano. «Ma certamente è difficile individuare vantaggi tangibili per gli Stati Uniti in una guerra commerciale condotta in questo modo e con queste motivazioni».
In economia, dazio chiama dazio, una specie di risposta eguale e contraria. Chi consiglia Trump in queste scelte economiche? Esiste un gruppo di esperti dietro questa strategia?
«Non parlerei di un’idea, di una strategia strutturata. Bisogna innanzitutto capire qual è la finalità. Se la finalità è quella di riportare la produzione di vari beni dentro gli Stati Uniti, è evidente che questi dazi devono essere percepiti come permanenti. Significa che devono durare almeno 30 anni e quindi dovranno essere condivisi anche dai futuri presidenti degli Stati Uniti, quando non ci sarà più Trump. Perché soltanto una politica protezionistica strutturale spinge e spingerà le imprese a portare la propria produzione, i propri stabilimenti, negli Stati Uniti».
I primi destinatari dei dazi di Trump sono Messico e Canada. Ma pare che ora ci si stia avviando alla negoziazione.
«Dunque non si parla di dazi strutturali, ma, diciamo così, flessibili e dunque temporanei. E se sono temporanei è evidente che vengono presi un po’ come un eventuale shock, ma comunque destinato a essere recuperato nell’arco di poco tempo. E quindi non produrranno assolutamente niente, se non qualche scossone sui mercati finanziari. Perché un po’ di volatilità comunque la provocano senza dubbio. Dunque, che credibilità hanno i dazi di Trump? Il presidente li usa come arma negoziale per poi rimangiarseli oppure vuole effettivamente imporli per riportare le produzioni negli Stati Uniti? Questa è la domanda a cui non abbiamo ancora risposta».
Il nuovo inquilino della Casa Bianca sostiene che i dazi serviranno anche a ridurre il deficit americano. Può funzionare?
«No, gli ordini di grandezza sono troppo differenti. Il deficit americano è enorme, mentre il gettito derivante dai dazi sarebbe irrisorio in confronto. Non è una strategia sostenibile».
Sul piano geopolitico, quali conseguenze sta generando questa politica protezionista?
«Gli Stati Uniti stanno rinnegando la loro politica commerciale degli ultimi due secoli – quella del libero scambio – colpendo alleati storici come Canada e Messico. Tutto ciò crea instabilità e spinge l'Europa – altra storica alleata atlantica – verso una maggiore integrazione per aumentare il proprio potere negoziale. Se l’Unione non è sproveduta, si ricompatterà ulteriormente. Inoltre, verrà spinta a dirottare i suoi traffici verso la Cina. Il che è esattamente l'opposto di quello che dovrebbero essere gli interessi americani».
Verso l’Europa Trump ha minacciato, ma non ancora imposto, dazi. Se dovesse farlo, quali sarebbero le conseguenze?
«La reazione dell'Europa sarebbe inevitabile: per difendersi, imporrebbe dazi di ritorsione sui prodotti americani. In questo scenario, il commercio globale si contrarrebbe, penalizzando sia gli Stati Uniti che i loro partner. Una minaccia che diventa sempre più credibile. È chiaro che è di nuovo un’altra eventualità che nuoce agli Stati Uniti, anziché portar loro benefici».
Dal punto di vista tecnico, qual è l'impatto di questa guerra commerciale?
«In termini economici, i dazi creano inefficienza e recessione: aumentano i costi di produzione, riducono la competitività e frenano la crescita del Pil mondiale. Le imprese che si basano sull’export ne risentono direttamente, mentre i consumatori affrontano prezzi più alti e una minore varietà di beni. In definitiva, il livello di benessere generale diminuisce».
Trump non considera queste ripercussioni, visto che i Paesi colpiti risponderanno colpo su colpo, anzi dazio su dazio?
«Nell’entourage di Trump ci sono numerose persone legate a Wall Street e dunque potevano consigliarlo per il verso giusto. E invece l’imposizione dei dazi, che si è trasformata in trattativa con Messico e Canada, è andata avanti».
Ci sono precedenti storici di guerre commerciali così serrate?
«Negli ultimi 50-60 anni il commercio mondiale ha seguito un percorso di progressiva liberalizzazione. Non si vedeva un ritorno al protezionismo su questa scala da decenni. La globalizzazione, fino a pochi anni fa, sembrava un processo irreversibile. Ora assistiamo a un'inversione di tendenza, che può avere conseguenze imprevedibili».
Le banche centrali possono intervenire per attenuare gli effetti negativi dei dazi?
«No, il loro margine d'azione è limitato. Possono difendere il tasso di cambio, ma non possono contrastare le barriere commerciali che influenzano direttamente produzione e consumo. I danni della guerra dei dazi si riflettono inevitabilmente sul benessere delle persone, e a pagarne il prezzo più alto sono sempre i più deboli».
E l’Italia? Quanto ci rimetterebbe da questa guerra commerciale?
«Molto. L'Italia ha un avanzo commerciale con gli Stati Uniti di circa 42 miliardi di euro nel 2023. Tra i settori più colpiti ci sarebbe quello farmaceutico, con un export di 8 miliardi verso l’America. Se questi prodotti venissero gravati da dazi, ne verrebbero acquistati meno, riducendo la produzione e aumentando la disoccupazione nel nostro Paese».