Tornano in presenza le udienze di papa Francesco, anche se nel cortile di San Damaso e non in piazza. Nessun biglietto per entrare, ma una disciplinata fila fin dalle prime ore della mattina. Nel rispetto delle distanze e con la mascherina, uno per uno i pellegrini (un migliaio in tutto) entrano nella Città del Vaticano e si predispongono ad ascoltare la catechesi del Papa. Bergoglio, con l’aiuto della lettura degli Atti degli apostoli, continua il ciclo sul tema “Guarire il mondo”, incentrando la meditazione sull’argomento “La solidarietà e la virtù della fede”.
«Dopo tanti mesi riprendiamo il nostro incontro faccia a faccia non schermo a schermo, questo è bello», esordisce Francesco. E poi parla della pandemia e della necessaria solidarietà che non è semplice atto di generosità. «L’attuale pandemia», dice Bergoglio, «ha evidenziato la nostra interdipendenza: siamo tutti legati, gli uni agli altri, sia nel male che nel bene. Perciò, per uscire migliori da questa crisi, dobbiamo farlo insieme, insieme non da soli, insieme. Da soli no perché non si può o si fa insieme o non si fa. Dobbiamo farlo insieme tutti quanti, nella solidarietà. Questa parola oggi vorrei sottolinearla: solidarietà. Come famiglia umana abbiamo l’origine comune in Dio; abitiamo in una casa comune, il pianeta-giardino in cui Dio ci ha posto; e abbiamo una destinazione comune in Cristo. Ma quando dimentichiamo tutto questo, la nostra interdipendenza diventa dipendenza di alcuni da altri, perdiamo questa armonia della interdipendenza e aumentiamo la disuguaglianza e l’emarginazione; si indebolisce il tessuto sociale e si deteriora l’ambiente. Sempre lo stesso modo di agire».
«La parola “solidarietà”», continua, «si è un po’ logorata e a volte la si interpreta male, ma indica molto di più di qualche atto sporadico di generosità, è di più. Richiede di creare una nuova mentalità, una nuova mentalità che pensi in termini di comunità, di priorità della vita di tutti rispetto all’appropriazione dei beni da parte di alcuni».
Francesco invita a pensare a cosa accadeva nella costruzione della Torre di Babele «che descrive ciò che accade quando cerchiamo di arrivare al cielo – la nostra meta – ignorando il legame con l’umano, con il creato e con il Creatore. È un modo di dire, accade ogni volta che uno vuole salire salire salire senza pensare agli altri, io solo. Costruiamo torri e grattacieli, ma distruggiamo la comunità. Unifichiamo edifici e lingue, ma mortifichiamo la ricchezza culturale. Vogliamo essere padroni della Terra, ma roviniamo la biodiversità e l’equilibrio ecologico. Io vi ho raccontato in qualche altra udienza quei pescatori di San Benedetto del Tronto che sono venuti quest’anno e mi hanno detto che hanno tolto dal mare 24 tonnellate di rifiuti di cui metà erano plastica e questi prendono i pesci, ma anche i rifiuti per portarli fuori per pulire il mare».
E sottolinea che «durante la costruzione della torre, quando un uomo cadeva, erano schiavi, e moriva nessuno diceva nulla al massimo “poveretto, ha sbagliato ed è caduto”. Invece, se cadeva un mattone, tutti si lamentavano e se qualcuno era colpevole era punito. Perché? Perché un mattone era costoso. C’era bisogno di tempo e di lavoro per fabbricare mattoni. Un mattone valeva di più della vita umana. Ognuno di noi pensi cosa succede oggi. Purtroppo anche oggi può succedere qualcosa del genere. Cade qualche quota del mercato finanziario, l’abbiamo visto sui giornali in questi giorni e la notizia è in tutte le agenzie. Cadono migliaia di persone a causa della fame e nessuno ne parla».
Opposta alla torre di Babele è invece la Pentecoste. «Lo Spirito Santo, scendendo dall’alto come vento e fuoco, investe la comunità chiusa nel cenacolo, le infonde la forza di Dio, la spinge a uscire e ad annunciare a tutti Gesù Signore. Lo Spirito crea l’unità nella diversità, crea l’armonia. Nel racconto della torre di babele non c’era l’armonia, c’era andare avanti per guadagnare, lì c’era un mero strumento, mera “forza-lavoro”, in Pentecoste ognuno di noi invece è uno strumento comunitari e partecipa con tutto sé stesso all’edificazione della comunità. San Francesco d’Assisi lo sapeva bene, e animato dallo Spirito dava a tutte le persone, anzi, a tutte le creature, il nome di fratello o sorella. Anche fratello lupo, ricordiamo».
Dunque, conclude, la strada è «la solidarietà, la strada da percorrere verso un mondo post-pandemia, verso la guarigione delle nostre malattie interpersonali e sociali. Voglio ripeterlo da una crisi si esce o migliori o peggiori, dobbiamo noi scegliere e la solidarietà è una strada per uscire dalla crisi migliori, non con cambiamenti superficiali, con una verniciata, no, migliori». Una solidarietà guidata dalla fede ci permette di tradurre l’amore di Dio nella nostra cultura globalizzata, non costruendo torri o muri che dividono e poi crollano, ma tessendo comunità e sostenendo processi di crescita veramente umana e solida. Faccio una domanda. Io penso ai bisogni degli altri? Ognuno risponda nel suo cuore».
Torna all’immagine della tempesta. «Nel mezzo di crisi e tempeste, il Signore ci interpella e ci invita a risvegliare e attivare questa solidarietà capace di dare solidità, sostegno e un senso a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Possa la creatività dello Spirito Santo incoraggiarci a generare nuove forme di familiare ospitalità, di feconda fraternità e di universale solidarietà».
(Immagine in alto: papa Francesco dal cortile di San Damaso del Palazzo Apostolico durante la prima udienza aperta alla presenza del pubblico dallo scoppio della pandemia. Foto Ansa)