Quest’anno, come ogni anno, la sera del 31 ottobre, in occasione di Halloween, sentirò suonare alla mia porta dei ragazzini festanti – e magari travestiti con costumi da film dell’orrore – che mi diranno “dolcetto o scherzetto?”. Come devo considerare questa ricorrenza alla luce della mia fede? - STEFANO
La tradizione di Halloween ha origine dall’antica festa dei Celti chiamata “Samhain”, che segnava la fine dell’estate con l’ultimo raccolto e l’inizio dell’inverno. Nella notte che precedeva il nuovo anno pensavano che il confine tra il mondo dei vivi e dei morti si confondesse, tanto che i fantasmi potessero aggirarsi nel mondo dei vivi e disturbare le loro attività. Così la notte del 31 ottobre accendevano falò sacri e indossavano costumi grotteschi, tipicamente costituiti da teste e pelli di animali, per spaventarli e allontanarli dai loro campi. Al termine, riaccendevano il focolare domestico, che avevano spento la sera stessa, dal falò sacro per proteggersi durante l’inverno. Per un popolo legato all’instabilità naturale e al ciclo delle stagioni queste pratiche erano un’importante fonte di conforto prima delle oscurità invernali.
Nell’VIII secolo, papa Gregorio III designò il 1° novembre come momento per onorare tutti i santi. La celebrazione era chiamata “All-Hallows” e la notte che la precede, il 31 ottobre, iniziò a essere appellata “All-Hallows’ Eve”, contratto poi in “Halloween”. Nel corso del tempo si è evoluta in una festa mondana, come il “dolcetto o scherzetto”, l’intaglio delle lanterne, i raduni festosi o l’indossare costumi. Occorre avere presenti le diverse posizioni su questa festa tra chi ne intravvede un culto idolatrico o addirittura satanico, come gli esorcisti sulla base della loro esperienza, e chi la vive con la dimensione della festa, da cui adulti e bambini sono attratti, con cibi e maschere, perché i loro amici, non necessariamente credenti, partecipano a questo evento sociale. Ed esercitare quindi, a seconda delle circostanze che ci si trova a vivere, il dovuto discernimento.
Sullo sfondo rimane, comunque, la narrazione di popoli e culture che attraverso i loro miti esprimevano l’universale bisogno di confrontarsi con la tragicità della morte tramite forme sociali esorcizzanti e, per certi versi, “normalizzanti” dell’esistenza. Su tale scia, per lo più oggi soffocata da una versione consumistica, ci possiamo domandare se la morte più che essere celebrata in maniera pagana, nel nostro tempo salutista e di intrattenimento mediatico sia stata semplicemente bandita dall’ordinario e relegata come tabù negli ospedali, nei luoghi di culto o nei circoli per filosofi pessimisti. In ogni caso la “vera salute”, che il Vangelo ci insegna essere nel “di più della fede”, supera (con tutto il rispetto) i miti e le credenze popolari attingendo alla morte e risurrezione di Cristo (mai disgiunte tra loro). È questo quello che viene celebrato nel ricordo dei santi (1° novembre) e dei defunti (2 novembre), sempre in riferimento alla figura del Salvatore, l’unico al quale chiedere la buona morte e la vita eterna, non solo per sé ma per tutti.
In tale senso, anche la prassi della visita ai propri cari al cimitero non è solo ricordare le esperienze passate con il defunto che ora non c’è più, ma diventa espressione di fede e atto di misericordia spirituale. Anzi, intercedere per il “futuro celeste” dei nostri cari – nelle preghiere di suffragio e nel ricordo nella santa Messa – è tanto utile a loro quanto a noi, che nel medesimo tempo ricordiamo le nostre radici terrene per aspirare alla stessa mèta del cielo.