“La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”, scriveva Ovidio e come dargli torto? È una frase che oggi mi torna in mente leggendo la recente circolare inviata dal ministro dell’ istruzione Valditara alle scuole, in cui si dispone il divieto di utilizzo dello smartphone durante l’orario scolastico anche a fini didattici per gli studenti del secondo ciclo. Una misura certamente necessaria, opportuna, giusta ,ma che, temo, rischi di rimanere solo una buona intenzione, se non accompagnata da un serio, concreto lavoro quotidiano, nelle aule, nei corridoi, nei consigli di classe. Parlo da insegnante, con anni di esperienza tra i banchi, consapevole che il problema non è nuovo. Da tempo affrontiamo in classe i danni dell’abuso di dispositivi digitali, gli effetti di una dipendenza silenziosa, cresciuta nell’indifferenza collettiva. E oggi, finalmente, ci troviamo davanti a un riconoscimento istituzionale forte, che poggia su dati concreti e allarmanti.
Il rapporto A focus on adolescent social media use and gaming (2024) lo dice chiaramente: tra gli adolescenti cresce l’uso problematico dei social media, la difficoltà a controllare lo smartphone, i sintomi da astinenza, la tendenza a trascurare le attività quotidiane, con pesanti conseguenze sul rendimento scolastico. Anche il Rapporto ISTISAN 23-25 parla chiaro: tra i 14 e i 17 anni, la dipendenza da social è strettamente legata a un peggioramento dei risultati scolastici. Serve cambiare rotta, e subito. Ma scrivere una regola non significa applicarla. E qui iniziano le nostre fatiche quotidiane, quelle che noi docenti conosciamo fin troppo bene. Molti istituti da anni hanno inserito nei propri regolamenti divieti e sanzioni. Ma poi ci si scontra con la realtà pratica: dove va riposto lo smartphone? Basta davvero chiedere di tenerlo spento nello zaino, minacciando sanzioni? O servono misure strutturate, come le famose “aule smartphone free”, con contenitori chiusi a chiave? Soluzioni ce ne sono tante: scatole aperte sulla cattedra, tasche appese al muro, sacchetti numerati, contenitori che si trovano anche online… ma ognuna ha i suoi problemi. Perché l’occasione fa l’uomo ladro, e mentre noi insegniamo, coinvolgiamo, ci mettiamo il cuore, c’è sempre chi dal banco (che sia l’ultimo o il primo) trova un modo per sbirciare. E i più furbi hanno lo smartwatch, il cellulare in tasca, mille astuzie. E noi, con due soli occhi, non possiamo diventare poliziotti.
Personalmente ritengo che le aule smartphone free siano la soluzione più efficace, anche perché coinvolgono attivamente le famiglie, chiedono una firma, una vera corresponsabilità educativa, un’autorizzazione al deposito del cellulare. Ma sappiamo bene quanto sia difficile gestire logisticamente tutto ciò, e quindi la scatola o il contenitore diventa la strada più facile con un grande però: il cambio dell’ora. Corsa al telefono per vedere le notifiche prima che arrivi l’insegnate, grande caos quando arriva e ripristino dell’ordine. E così noi docenti, che non abbiamo il dono dell’ubiquità (né della levitazione), ci troviamo nel mezzo di una battaglia logistica, oltre che educativa. E non dimentichiamo le deroghe previste nella stessa circolare. Giustissime nei casi specifici — studenti con PEI o PDP, esigenze personali documentate, usi funzionali in progetti didattici — ma che possono trasformarsi in vere falle nel sistema. Perché sappiamo quanto sia facile, a volte, trasformare l’eccezione in regola. Insomma, siamo davanti a una sfida complessa, che richiede molto più delle sanzioni o della buona volontà. Servono tempo, risorse, dialogo con le famiglie, e soprattutto una comunità educante compatta, capace di sostenere una scelta che va ben oltre il semplice “spegni il telefono”. La verità è che la scuola da sola non può bastare e il lavoro da fare per trovare la quadratura del cerchio sarà davvero complessa. Sarà invece importante investire nell’ educazione digitale, formare cittadini consapevoli e non solo studenti obbedienti. Ma soprattutto serviranno adulti, genitori, docenti, educatori, coerenti e presenti, capaci di testimoniare, con l’esempio, che la vita vera accade oltre lo schermo.