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di Emanuele Bilotti*
Sta destando interesse nell’opinione pubblica una decisione della Suprema Corte di cassazione che ha ritenuto la validità di un accordo tra coniugi, mediante il quale il marito ha riconosciuto che la moglie ha contribuito col proprio stipendio al benessere della famiglia e al pagamento delle spese per la ristrutturazione di un appartamento di proprietà esclusiva dello stesso marito e si è quindi obbligato a corrisponderle una somma di denaro di quasi 150.000,00 euro in caso di separazione.
Si osserva che con questa decisione la Suprema Corte ha ormai superato il proprio atteggiamento di netta chiusura nei confronti dei c.d. accordi prematrimoniali, e cioè di quegli accordi conclusi tra coniugi – o anche tra nubendi – volti a regolare in anticipo i loro rapporto patrimoniali nell’eventualità di una futura crisi matrimoniale.
In realtà, come ricorda la decisione in questione, già in un precedente del 2012 la Suprema Corte aveva ritenuto valido l’impegno della moglie, assunto prima del matrimonio, di corrispondere al marito una somma di denaro e di trasferirgli la proprietà di un immobile in caso di eventuale separazione quale indennizzo delle spese sostenute dal marito per ristrutturare la casa coniugale di proprietà esclusiva della moglie. In un precedente del 2013, poi, anch’esso richiamato dalla decisione in questione, la Suprema Corte aveva riconosciuto la validità di un prestito concesso dalla moglie al marito al momento del matrimonio con obbligo di restituzione in caso di separazione.
La decisione in questione sembra dunque inserirsi in un filone giurisprudenziale consolidato. In certi accordi la Suprema Corte riconosce da tempo una legittima espressione dell’autonomia dei coniugi. Si tratta infatti di accordi finalizzati a perseguire interessi leciti. E perciò senz’altro meritevoli di tutela. Del resto, attribuzioni patrimoniali destinate alla ristrutturazione di un immobile di proprietà esclusiva dell’altro coniuge, in quanto eccedenti la misura della contribuzione dovuta tra coniugi e disposte nel presupposto condiviso della stabilità del rapporto coniugale, richiederebbero comunque l’operatività di un rimedio perequativo in caso di divorzio.
Rimane ferma in ogni caso l’indisponibilità del diritto al trattamento economico di divorzio, almeno nella misura in cui questo trattamento svolga una funzione assistenziale per il coniuge economicamente svantaggiato. E risponda perciò a inderogabili esigenze solidaristiche. Si tratta di un principio che anche la decisione in questione ribadisce con chiarezza sempre in conformità ai precedenti richiamati. Gli accordi in questione possono indubbiamente incidere sulla determinazione dell’assegno di divorzio. È comunque fuori discussione la spettanza di un assegno alimentare in presenza dei presupposti di legge, mentre l’accordo che preveda una corresponsione una tantum rimane soggetto al controllo giudiziale.
C’è poi il problema della garanzia di una giusta compensazione dei sacrifici per la famiglia, sulla cui importanza anche la Suprema Corte richiama l’attenzione a partire da un’importante sentenza del 2018 sulle finalità dell’assegno divorzile.
Il fondamentale principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi esige infatti che essi “escano” dal matrimonio in condizioni patrimoniali equilibrate e coerenti con le loro comuni scelte di vita, tenuto conto delle capacità, anche potenziali, godute all’inizio del rapporto. A tal fine, però, un meccanismo di redistribuzione paritaria della ricchezza creata nel matrimonio al momento del suo scioglimento – a questo serve il regime legale di comunione dei beni – è forse ancor più importante dell’assegno divorzile.
In questa prospettiva sembra allora inadeguata la scelta a suo tempo fatta dal legislatore del 1975 di consentire ai coniugi di optare per la separazione dei beni con una semplice dichiarazione resa al momento della celebrazione del matrimonio. Si tratta di una peculiarità italiana. Nei diversi ordinamenti dell’Europa continentale, infatti, a garanzia di un’adeguata ponderazione nell’assunzione di una scelta così rilevante, il regime legale perequativo è derogabile solo con atto notarile.
In Germania, poi, a questo vincolo formale posto all’autonomia dei coniugi la giurisprudenza ha aggiunto anche un limite di ordine sostanziale. L’accordo con il quale i coniugi abbiano optato per la separazione dei beni è, infatti, assoggettato a un penetrante sindacato giudiziale che, anche in considerazione di circostanze sopravvenute, può determinarne l’inefficacia o comunque una rimodulazione dei suoi contenuti al fine di garantire la giusta compensazione ai sacrifici fatti per la famiglia.
Il riconoscimento dell’autonomia dei coniugi nella regolazione dei loro rapporti patrimoniali a seguito del divorzio non può dunque mettere in discussione né la solidarietà postconiugale né la giusta compensazione dei sacrifici fatti per la famiglia.
*Professore ordinario di diritto privato nell’Università Europea di Roma



