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«Se si vede quali Paesi possono permettersi i costi dell’organizzazione dei Giochi, si scopre che il cerchio comprende solo le Nazioni ricche. Dietro la crisi politica ed economica delle Olimpiadi ognuno può chiaramente riconoscere la crisi morale che il mondo contemporaneo sta attraversando».
Così scrive Jurgen Moltman, teologo tedesco della Chiesa evangelica riformata. La sua proposta, nel piccolo saggio Le Olimpiadi come religione moderna, è un’Olimpiade formato mondo, riportata all’essenziale, dove ogni atleta gareggia per sé e non per un Paese.
Evidentemente un’utopia. Ma dice del problema dei problemi: se non troviamo una strada per l’Olimpiade sostenibile, da un lato l’Olimpiade rischia di morire, dall’altro la preoccupazione che ogni evento apra la stura del malaffare rischia di condannarci all’immobilismo.
Abbiamo chiesto ad Alessandro "Chira" Guala, docente di City Marketing (Università di Torino), tra i fondatori del centro OMERO (Osservatorio di ricerca su Olimpiadi e Grandi eventi – Università di Torino e Politecnico), di aiutarci a capire quale sia la strada per un’Olimpiade a misura umana.
Che cosa lasciano i Giochi al netto di propaganda e disfattismi?
«La ricerca sui Giochi Olimpici (ma anche sulle Expo) mostra come il vero nodo dei mega eventi sia la “eredità”, materiale e immateriale. In realtà più o meno i Giochi funzionano, ma ciò che conta per una città, o una regione, è cosa avviene quando si chiudono i battenti, e si deve decidere le destinazioni d’uso di impianti e strutture da riconvertire, gestire, far funzionare. L’eredità “materiale” è fatta di edifici e impianti sportivi, costosi e difficili da mantenere; quando l’evento finisce, queste strutture diventano sproporzionate rispetto alla domanda locale. L’eredità “immateriale” o simbolica è fatta di immagine, nuove professionalità, orgoglio cittadino, nuova identità: è questo il caso di Torino, ormai percepita come nuova meta culturale, non più One Company Town (la città della fabbrica, ndr.)».
Quanto è alto il rischio di ereditare debiti?
«La storia dei Giochi registra pesanti costi di riutilizzazione delle strutture sportive e degli Olympic Park: ritardi a Sydney 2000, strutture abbandonate ad Atene 2004 e a Pechino 2008; nei Giochi invernali i trampolini per il salto e le piste da bob sono state quasi sempre dismesse, per i costi ingestibili del ghiaccio: è accaduto anche a Torino. I Villaggi Atleti e Media sono più facilmente convertibili (uffici, residenze per studenti, alloggi, come si è visto a Barcellona 1992, Atene 2004, Londra 2012; alcuni impianti diventano PalaMusica o PalaCongressi; altre strutture sportive rischiano di restare abbandonate; a Torino il villaggio olimpico 2006 è abbandonato».
Portano o non portano turismo e lavoro?
«La crescita occupazionale è un mito permanente nei dossier di candidatura: in realtà nuovi posti di lavoro sono molti, ma temporanei, salvo casi ove i Giochi hanno funzionato da marketing territoriale per attirare investitori e imprese, magari senza effetti di rigenerazione urbana (per esempio Atlanta 1996). Anche lo sviluppo turistico non va enfatizzato: durante i Giochi i turisti in senso proprio non superano i cento - duecento mila arrivi: Barcellona nel 1992 ha registrato solo 100.000 turisti in più rispetto agli anni precedenti, ma la rigenerazione urbana, l’offerta culturale e la nuova immagine della città hanno fatto raddoppiare i turisti in pochi anni: se le cose funzionano, il turismo cresce dopo i Giochi».
Che cosa fa funzionare i Giochi allora?
«Questo è il problema: i Giochi funzionano solo se inseriti in un progetto. Quindi, accanto alla organizzazione dei Giochi, ben prima della cerimonia inaugurale, va creato un ente con il compito di pianificare la Legacy: così ha fatto Londra 2012, affidando nel 2008 tale incarico a Ricky Burdett, della London School of Economics. Questa decisione ha funzionato per la riqualificazione dell’East End».
Al netto del rischio di snaturarle sono verosimili Olimpiadi spalmate su più città?
«Nel dicembre 2014 Il Cio ha preso una decisione storica, permettendo la collaborazione tra diverse città (ed anche tra diversi Paesi) per l’organizzazione dei Giochi; ciò consente la distribuzione di siti e competizioni olimpiche in diverse città. Tale decisione, tesa a superare il “gigantismo” dei Giochi, ha un effetto anche sul budget, che può essere diviso tra più soggetti, senza condannare a costi proibitivi una sola città (nei Giochi estivi si parte almeno da 7 – 8 mila milioni di euro). In questo modo si potrebbero “spalmare” gli investimenti, costruire nuovi impianti nelle aree meno dotate di servizi, e riequilibrare così il rapporto tra domanda e offerta di sport e tempo libero. Poteva essere il caso del 2024».
Che pensa di questo no?
«Un' occasione mancata, specie per la rigenerazione urbana e il riequilibrio tra quartieri (Roma non ha bisogno di visibilità, o di nuovi turisti...); l'immagine dell'Italia ne esce indebolita: non si fanno investimenti perché si ha paura di sprechi, infiltrazioni ecc., non è un bel messaggio, in nome di un rigore che allora dovrebbe sempre essere garantito, ma non è così».
Così scrive Jurgen Moltman, teologo tedesco della Chiesa evangelica riformata. La sua proposta, nel piccolo saggio Le Olimpiadi come religione moderna, è un’Olimpiade formato mondo, riportata all’essenziale, dove ogni atleta gareggia per sé e non per un Paese.
Evidentemente un’utopia. Ma dice del problema dei problemi: se non troviamo una strada per l’Olimpiade sostenibile, da un lato l’Olimpiade rischia di morire, dall’altro la preoccupazione che ogni evento apra la stura del malaffare rischia di condannarci all’immobilismo.
Abbiamo chiesto ad Alessandro "Chira" Guala, docente di City Marketing (Università di Torino), tra i fondatori del centro OMERO (Osservatorio di ricerca su Olimpiadi e Grandi eventi – Università di Torino e Politecnico), di aiutarci a capire quale sia la strada per un’Olimpiade a misura umana.
Che cosa lasciano i Giochi al netto di propaganda e disfattismi?
«La ricerca sui Giochi Olimpici (ma anche sulle Expo) mostra come il vero nodo dei mega eventi sia la “eredità”, materiale e immateriale. In realtà più o meno i Giochi funzionano, ma ciò che conta per una città, o una regione, è cosa avviene quando si chiudono i battenti, e si deve decidere le destinazioni d’uso di impianti e strutture da riconvertire, gestire, far funzionare. L’eredità “materiale” è fatta di edifici e impianti sportivi, costosi e difficili da mantenere; quando l’evento finisce, queste strutture diventano sproporzionate rispetto alla domanda locale. L’eredità “immateriale” o simbolica è fatta di immagine, nuove professionalità, orgoglio cittadino, nuova identità: è questo il caso di Torino, ormai percepita come nuova meta culturale, non più One Company Town (la città della fabbrica, ndr.)».
Quanto è alto il rischio di ereditare debiti?
«La storia dei Giochi registra pesanti costi di riutilizzazione delle strutture sportive e degli Olympic Park: ritardi a Sydney 2000, strutture abbandonate ad Atene 2004 e a Pechino 2008; nei Giochi invernali i trampolini per il salto e le piste da bob sono state quasi sempre dismesse, per i costi ingestibili del ghiaccio: è accaduto anche a Torino. I Villaggi Atleti e Media sono più facilmente convertibili (uffici, residenze per studenti, alloggi, come si è visto a Barcellona 1992, Atene 2004, Londra 2012; alcuni impianti diventano PalaMusica o PalaCongressi; altre strutture sportive rischiano di restare abbandonate; a Torino il villaggio olimpico 2006 è abbandonato».
Portano o non portano turismo e lavoro?
«La crescita occupazionale è un mito permanente nei dossier di candidatura: in realtà nuovi posti di lavoro sono molti, ma temporanei, salvo casi ove i Giochi hanno funzionato da marketing territoriale per attirare investitori e imprese, magari senza effetti di rigenerazione urbana (per esempio Atlanta 1996). Anche lo sviluppo turistico non va enfatizzato: durante i Giochi i turisti in senso proprio non superano i cento - duecento mila arrivi: Barcellona nel 1992 ha registrato solo 100.000 turisti in più rispetto agli anni precedenti, ma la rigenerazione urbana, l’offerta culturale e la nuova immagine della città hanno fatto raddoppiare i turisti in pochi anni: se le cose funzionano, il turismo cresce dopo i Giochi».
Che cosa fa funzionare i Giochi allora?
«Questo è il problema: i Giochi funzionano solo se inseriti in un progetto. Quindi, accanto alla organizzazione dei Giochi, ben prima della cerimonia inaugurale, va creato un ente con il compito di pianificare la Legacy: così ha fatto Londra 2012, affidando nel 2008 tale incarico a Ricky Burdett, della London School of Economics. Questa decisione ha funzionato per la riqualificazione dell’East End».
Al netto del rischio di snaturarle sono verosimili Olimpiadi spalmate su più città?
«Nel dicembre 2014 Il Cio ha preso una decisione storica, permettendo la collaborazione tra diverse città (ed anche tra diversi Paesi) per l’organizzazione dei Giochi; ciò consente la distribuzione di siti e competizioni olimpiche in diverse città. Tale decisione, tesa a superare il “gigantismo” dei Giochi, ha un effetto anche sul budget, che può essere diviso tra più soggetti, senza condannare a costi proibitivi una sola città (nei Giochi estivi si parte almeno da 7 – 8 mila milioni di euro). In questo modo si potrebbero “spalmare” gli investimenti, costruire nuovi impianti nelle aree meno dotate di servizi, e riequilibrare così il rapporto tra domanda e offerta di sport e tempo libero. Poteva essere il caso del 2024».
Che pensa di questo no?
«Un' occasione mancata, specie per la rigenerazione urbana e il riequilibrio tra quartieri (Roma non ha bisogno di visibilità, o di nuovi turisti...); l'immagine dell'Italia ne esce indebolita: non si fanno investimenti perché si ha paura di sprechi, infiltrazioni ecc., non è un bel messaggio, in nome di un rigore che allora dovrebbe sempre essere garantito, ma non è così».



