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Andrea Crisanti in Senato.
Ci sono accuse che contano meno per ciò che dimostrano e più per ciò che rivelano: un deficit di fiducia. Quando Andrea Crisanti ha detto in Senato che, in molti concorsi universitari, “si sa già” chi vincerà, la questione non è soltanto stabilire se questa frase valga sempre; è capire perché suoni plausibile a così tante persone, dentro e fuori l’accademia.
Nello stesso intervento ha richiamato anche un indicatore di scarsa mobilità accademica (il cosiddetto inbreeding), citando l’ordine di grandezza dell’80% per l’Italia a fronte di una media europea intorno al 55%. La fiducia è la prima infrastruttura della vita pubblica; quando si incrina, anche procedure formalmente corrette diventano socialmente sospette. L’università vive di reputazione – scientifica, didattica, civile – e la reputazione non è un ornamento: è ciò che rende credibile un titolo di studio, desiderabile un corso, autorevole una ricerca. Le generalizzazioni feriscono, ma per questo i segnali di chiusura vanno presi sul serio. Se l’università appare chiusa, la società finisce per percepirla come un corpo separato.
La diagnosi, però, non può fermarsi alla morale. Deve entrare nella meccanica. Un elemento chiave è il sistema dei “punti organico”, la valuta con cui lo Stato misura la capacità assunzionale degli atenei. In forma semplificata: 1 punto organico (PO) corrisponde al costo medio di un professore ordinario; un professore associato vale 0,7 PO. Nelle stime ministeriali, 1 PO è nell’ordine di 116 mila euro. Sembra contabilità; in realtà è filosofia applicata, perché decide che cosa è “possibile” e che cosa è “impossibile” prima ancora che una commissione si sieda e legga i lavori scientifici dei candidati.
Facciamo un esempio semplice. Un dipartimento, tra pensionamenti, turn‑over e vincoli di bilancio, ha a disposizione 0,3 PO. Se volesse chiamare dall’esterno un ordinario, dovrebbe mettere sul tavolo 1 PO: non può. Ma se nello stesso dipartimento c’è già un associato interno, quel docente pesa già in bilancio per 0,7 PO. La progressione a ordinario richiede – in termini di costo marginale – solo il differenziale: 1 − 0,7 = 0,3. Con gli stessi 0,3 PO che non bastavano per un esterno, l’interno diventa sostenibile. In questa aritmetica sta una parte della “prevedibilità” dei concorsi: non sempre la previsione discende da un accordo inconfessabile; talvolta discende dal fatto che, se vince un esterno, i conti non sono più sostenibili.
È qui che si annida l’equivoco più comune: confondere la razionalità contabile con la prova di un “trucco”. Difendere un interno non è automaticamente un vizio morale. L’università non è solo un mercato di curriculum: è una comunità di apprendimento e ricerca con obblighi verso gli studenti. Continuità didattica significa corsi che non saltano, laboratori che non si spengono, tesi e tirocini che non restano senza guida, dottorandi che non perdono il riferimento scientifico, relazioni internazionali e territoriali che non si dissolvono. In molte discipline la “scuola” locale è un capitale: ha metodi, archivi, infrastrutture, progetti, responsabilità. In quel caso, valorizzare chi ha già dimostrato di reggere quel carico non è, di per sé, un male.
Che fare, allora? Una riforma davvero riformista dovrebbe partire da un principio semplice: non moralizzare le persone, progettare gli incentivi. Separare contabilmente (e finanziariamente) le progressioni interne dalle chiamate esterne, destinando risorse specifiche alla mobilità. Rendere trasparente ex ante non solo la griglia dei criteri scientifici, ma anche il quadro di sostenibilità del bando: quanti PO si impegnano, per quanto tempo, e quali alternative sono previste se vince un esterno. Premiare, nei criteri di finanziamento e valutazione, gli atenei che attraggono da fuori e che praticano mobilità reciproca; e rendere sistematico l’uso di strumenti che aumentino la credibilità procedurale (commissioni realmente plurali, tracciabilità degli atti, chiarezza nella motivazione).
La filosofia, qui, è concreta: una buona istituzione non chiede santità agli individui; costruisce regole in cui la virtù è praticabile. Se vogliamo concorsi più credibili, dobbiamo rendere credibile – e possibile – scegliere il migliore anche quando non è “di casa”. Solo così 0,3 tornerà ad essere un numero. E smetterà di essere il simbolo di un sospetto.
di Giuseppe Pignataro


