Il giorno dopo resta la cronaca di una morte insensata e annunciata. Cominciata con un agguato al pullman del Pistoia Basket di ritorno da Rieti: una sassaiola di tifosi avversari lungo la superstrada, un mattone che sfonda il parabrezza e uccide un autista, Raffaele Marinella, 65 anni, non quello alla guida, dell’autobus che sta portando a casa i tifosi del Pistoia. Il contesto è quello della Serie A2 di pallacanestro.

Abbiamo chiesto a Flavio Tranquillo, da tempo voce della pallacanestro di Sky, con una cultura e una particolare attitudine a osservare il fenomeno sportivo ben al di là delle righe del campo, di aiutarci a interpretare questi fatti, che siamo abituati ad associare al calcio.

«Mi pare fuori luogo farne una questione di basket o di calcio, perché negli ultimi 10 anni abbiamo registrato almeno 30 casi di lancio di oggetti contro la tifoseria avversaria nella pallacanestro e 250 nel calcio. En passant, questa differenza si spiega con le diverse dimensioni dei due movimenti, non certo con la presunta superiorità di una disciplina sull’altra. Se episodi di violenza accadono con tale frequenza, più che concentrarci sulle conseguenze dobbiamo guardare al fenomeno nel suo complesso. Il tema diventa quindi il rapporto tra la violenza, lo sport e il tifo».

La FIP ha deciso di far disputare le gare interne di Rieti a porte chiuse, una decisione simbolica. Ma quello che vediamo è un fenomeno che abbiamo già visto: l’andare a far violenza fuori dallo stadio dove il controllo è più difficile. Ha l’impressione che ci siano idee su come arginare questo?

«Saranno le indagini a stabilire cosa è successo, ma mi par di capire che le forze dell'ordine hanno usato un protocollo tipico di queste situazioni: io proteggo l'uscita dal palazzetto, vigilo sull'imbarco sul pullman, faccio qualche chilometro, mi assicuro che non ci sia nessuno dietro, dopodiché abbandono il mezzo al suo viaggio. Comunque, il punto non è di ordine pubblico. Sarebbe del resto implausibile pensare di scortare dalla partita fino a casa tutti i pullman di tutte le Rieti e le Pistoie d’Italia.»

Se pretendessimo di risolvere il problema solo aumentando l’intervento della Polizia o i Daspo, credo che perderemmo in partenza la partita». Ma i segnali simbolici servono o non tanto?

«In primo luogo, ricordo a me stesso che simbolo e diavolo vengono dallo stesso verbo greco, ballo. Le iniziative simboliche, che in effetti uniscono, sono anche figlie del dirsi: ho fatto il mio, di più non posso fare. Il che è vero per certi versi, ma non per altri. Ribadito che sarebbe impensabile militarizzare le migliaia di eventi sportivi potenzialmente a rischio ogni fine settimana in Italia, possiamo chiederci se non ci sia nello sport qualcosa che potremmo chiamare ‘favoreggiamento culturale’. Una parte del problema, ritengo, è che si tende ad accettare una quota verbale o fisica di violenza come fisiologica e consustanziale allo sport e al tifo. Inoltre, la violenza viene “giustificata”, non solo da chi la agisce, come una ‘rappresaglia’, una reazione, una difesa. A volte, per assurdo che sia, contro le “ingiustizie” arbitrali o gli errori altrui, in una terribile modernizzazione della legge del taglione. Mi vengono in mente le giustificazioni degli “estremisti” degli anni ‘70: allora tiravano in ballo l’ideologia, qui ci si nasconde dietro la passione, ma il meccanismo non è tanto diverso, inclusa una demonizzazione di quel potere di cui si rinforzano, inconsapevolmente, i lati più oscuri».

Sta dicendo che lo sport non è altro che il catalizzatore di una violenza che è già fuori, che attraversa i dibattiti, le risse dei ragazzi in strada?

«Al 100%. Lo sport, che è ritualizzazione della guerra nella sua origine, ha preso in parte il posto di quello che era la lotta di piazza ieri: un fenomeno identitario, di appartenenza, che si aggrappa a simboli (la maglia, la bandiera) che mentre uniscono dividono (come il Diavolo). Ora come allora, quelli che usavano la violenza sono una netta minoranza rispetto a decine di milioni di cittadini. In ambedue i casi, però, il fenomeno è socialmente e culturalmente rilevante. E in ambedue i casi, la tentazione è quella di pensare: «finché se le danno tra di loro non è poi così grave». Senza comprendere che la società, la democrazia e (nel suo piccolo) lo sport dipendono dalla cura con la quale vengono non tanto difesi ma plasmati da tutti noi.»

Pensiero sbagliato e con le gambe cortissime, perché poi succede che ci vanno di mezzo altri che stanno solo lavorando, come l’autista del pullman o come il commissario Raciti.

«Appunto, io credo che manchi una riflessione su quale sia il terreno di coltura in cui questa violenza cresce e, soprattutto, su come si fa a cambiarlo. E se sul problema di ordine pubblico mi dichiaro incompetente, su quello della coltura, parola che assomiglia non a caso a ‘cultura’, mi sento responsabile. E in quota parte correo».

Lei poche settimane fa ha portato sul palco dell’overtime Festival il tema “L’etica nello sport e nella vita”. Par di capire che per trasmetterla nello sport non bastino i tanti progetti un po’ fine a sé stessi?

«Un po’ come nella vita, dovremmo partire dalle famiglie e dai luoghi della formazione: se i bambini che entrano nelle società sportive ne escono per la gran parte tifosi, che pur non è affatto sinonimo di violenti, significa che non riusciamo a promuovere una prospettiva diversa (e più ampia) di quella del pur rispettabile tifo. Sarebbe il caso di impiegare più tempo, oltre che a formare in senso tecnico-tattico l’atleta, a dare il senso del fare, del guardare e del pensare sport. Uno dei motivi per cui questa attività “tira” così tanto è la sua capacità di aggregazione, ma c’è modo e modo di aggregarsi. Lo si può fare per giocare (insieme e contro) in un set di regole liberamente accettate, ma anche per tirare pietre in un gruppo che mi permette di sfogare le frustrazioni contro il “nemico”. In questo senso ritengo che il problema sia culturale: troppo spesso l’ambiente ti trasmette l’idea che vincere, che pur rimane l’obiettivo di chi partecipa, sia l’unico modo di dar senso allo sport. Si deve partire dalla cancellazione di questa orribile cultura del risultato, che è causa dell’abbandono dell’attività, del burnout e, soprattutto, della giustificazione, in nome del risultato stesso, di comportamenti che da borderline diventano presto illeciti e, più raramente, illegali. Non si potrà mai eliminare del tutto la devianza, nello sport e nella società. Possiamo però lavorare perché lo sport dia una mano a costruire persone in grado di accettare meglio sé stesso e l’altro. Sarebbe un bel modo di onorare la persona scomparsa ieri».