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Quando è in gioco la tutela dei bambini, tra famiglia e intervento dei servizi sociali e giudiziari, ciclicamente nel nostro Paese si innescano feroci scontri ideologici tra posizioni contrapposte, che troppo spesso diventano dialoghi tra sordi, spesso strumentalizzati dallo scontro politico-partitico. Così non interessa tanto capire i valori in gioco e le ragioni dei vari attori, ma semplicemente urlare in modo aggressivo, sempre più forte, i propri argomenti contro quelli degli altri. E così il serio dibattito sui diritti delle persone e dei minori, fondati sulle carte internazionali e sulla Costituzione, diventa rapidamente l’ennesimo derby da stadio, che individua nemici e trova soluzioni ipersemplificate a problemi complessi. È stato così con la vicenda Serena Cruz (1986, chi la ricorda?), un caso di “adozione illegale”; è stato così, più recentemente, con la vicenda dei presunti abusi di Bibbiano (oggi chiusa giudiziariamente), ed è così anche oggi, con la complessa storia della “famiglia nel bosco”, che ha visto un drastico intervento della giustizia minorile che “porta via i bambini” ad una coppia (per di più straniera) che aveva scelto uno stile di vita assolutamente “deviante” rispetto ad un modello “normale”, o perlomeno “divergent”.
La storia dell’intera vicenda è lunga e complessa, e non crediamo saggio né legittimo prendere posizione, che poi significa “quale curva di ultras” scegliere. Il dialogo tra la famiglia e i servizi è stato lungo e accidentato, i punti di possibile incontro e scontro sono stati numerosi, e sicuramente non è stata presa a cuor leggero la decisione di intervenire con un provvedimento così drastico, come il sostanziale allontanamento dei figli dei bambini dai genitori, sia pure in forme mitigate (il padre no ma la madre sì, ma solo per poche ore, ecc.).
Eppure questi bambini non erano né maltrattati né trascurati, sostanzialmente. E nemmeno “soli nel bosco”, come sembrava in prima battuta, dato che sono emerse una trentina di famiglie, “amiche”, che stanno sperimentando lo stesso stile di vita negli stessi boschi, facendosi anche compagnia, tra adulti e tra bambini. E nemmeno risultano “privati del diritto alla scuola”, se è vero che i genitori provvedevano con l’home schooling, forma con cui i genitori si impegnano ad offrire a casa percorsi formativi analoghi ed equipollenti a quelli scolastici – anche questa una forma originale e poco accolta nel nostro Paese, ma pur sempre legittimata e regolata dalle norme.


Qui sembra essere in gioco molto più “la forma della cura”, non la sua assenza, non un esplicito maltrattamento o abbandono; sembra quasi che il nostro sistema giudiziario non sia stato in grado di riconoscere una differente forma di esercizio della genitorialità, giocata sul rapporto con la natura, su un progetto di vita alternativo, sull’abbandono di alcune risorse e dotazioni che per la stragrande maggioranza degli italiani devono far parte del pacchetto minimo di diritti di cittadinanza, ma che per questa famiglia non erano indispensabili: le utenze di luce e gas, l’acqua corrente, l’adesione a protocolli sociali consolidati (inclusa la tutela della salute tramite le vaccinazioni, per dirla tutta). Siamo in una “zona grigia”, dove la responsabilità genitoriale è indiscutibilmente presente, ma viene esercitata in modi che a molti sembrano discutibili (talmente discutibili fino al punto di cancellarla). In fondo è esattamente quello che l’art. 30 della Costituzione rappresenta: “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”. Ai genitori il pieno dovere/diritto di esserlo; alla legge il compito – difficilissimo - di capire se il modo è inadeguato (“incapacità” è concetto squisitamente giuridico, oltre che qualitativo).
In sostanza questi genitori sono genitori “radicalmente diversi”, ma è difficile sostenere che il legame educativo fosse dannoso per il benessere dei bambini; così è difficile valutare se un intervento così radicale, come l’allontamento dei bambini dai propri genitori, avrà conseguenze più positive, rispetto all’impatto negativo, che sicuramente comporta questo allontanamento. Né dovrebbe bastare, per tagliare di colpo i legami familiari, una pur giusta preoccupazione per le condizioni igieniche e socio-economiche.
Auspichiamo quindi un percorso di doppia ragionevolezza: da parte dei tribunali e dei servizi un approccio da “giurisprudenza mite”, che tenga vive le relazioni familiari, e non interrompa i legami genitori – figli di questa famiglia, che è “decisamente strana”, ma potrebbe anche essere “sufficientemente buona” (come ricordava Bettelheim). Da parte dei genitori, d’altro canto, la messa in discussione di un modello di vita così radicale, o perlomeno un serio dialogo con il contesto sociale esterno, non per paura dell’intervento dello Stato, ma per riflettere su come si alimenta e custodisce il benessere presente e futuro di un bambino (del tuo bambino!). Perché rimane vero che “per educare un fanciullo serve un intero villaggio”, ma insieme alla sua famiglia. E qui il valore più grande che sembra esserci perso è proprio la necessaria alleanza educativa tra famiglia e società.
*Direttore del Cisf (Centro internazionale studi famiglia)





