Lola aveva 28 anni, un bellissimo lavoro, una bella famiglia e tanti amici. La sera del 13 novembre 2015 era tra le decine di giovani che nel Bataclan hanno trovato la morte per mano del terrorismo fondamentalista islamico. Una morte assurda e inaccettabile per qualunque genitore. Un motivo per covare rabbia e risentimento per una vita intera. Ma non è quello che ha fatto la sua famiglia. Ha deciso di non odiare e ha fatto molto di più: il padre George, un medico che ha girato il mondo e si definisce “ateo dalle radici cristiane", ha accettato di incontrare Azdyne Amimour il cui figlio Samy faceva parte del commando assassino ed è morto abbattuto dalla polizia.

«Avevo ricevuto sulla mail dell’associazione 13Onze15 – Fraternité et Vérité, che allora presiedevo, una richiesta di incontro da Azdyne Amimou, padre di Samy, uno dei terroristi dell’attentato. Desiderava parlare di quel “tragico evento” perché si sentiva anch’egli vittima, come padre di suo figlio. Quella risposta mi lasciò profondamente combattuto. Qualche mese prima avevo incontrato a Parigi alcune madri i cui figli erano partiti per unirsi all’ISIS: donne distrutte dal dolore e dal senso di colpa, ma anche impegnate a reagire e a proteggere i figli rimasti, riunendosi in associazioni. Avevo imparato che, pur colpevoli, anche i jihadisti potevano essere vittime di manipolazione. Per questo riuscivo a comprendere il dolore di Azdyne. Mi colpì piuttosto il modo freddo e distaccato con cui si presentava come vittima, quasi nascondendo l’orrore dietro parole come “tragico evento”. Ai miei occhi, restava comunque il padre di uno degli assassini. Comunque accettai di parlargli e l’ho incontrato per la prima volta il 27 febbraio 2017 al Café Français, in place de la Bastille, insieme a un’amica, sopravvissuta del Bataclan e membro del consiglio direttivo dell'associazione».

Come è stato l’incontro?

«Non sapevo bene cosa aspettarmi  ed ero un po’ nervoso. Mi sono trovato davanti un uomo di dieci anni più grande di me, segnato dal dolore per ciò che era accaduto, ma che mostrava una certa forza d’animo. Un uomo che voleva spiegarsi, raccontare la propria storia e quella della sua famiglia, e chiedere perdono a nome di suo figlio. Era una persona simpatica, colta — un autodidatta, con poca istruzione formale ma capace di citare Victor Hugo con naturalezza —, tollerante e pacifica, agli antipodi dell’islamismo radicale. Un uomo che aveva dimostrato coraggio, forse persino imprudenza, quando nel giugno 2014 si era recato nel cuore dello Stato Islamico per tentare di strappare suo figlio a quel destino. Quel giorno parlammo a lungo, e continuammo a farlo nei mesi successivi».

È una coincidenza che siate entrambi due padri? 

«In vari incontri e convegni internazionali, come il summit FATE (Families Against Terrorism and Extremism) nel 2016, avevo conosciuto solo madri di jihadisti. I padri erano assenti. Anche nel gruppo Retissons du lien, attivo a Bruxelles, ho incontrato per lo più donne. Azdyne è stato una delle poche eccezioni. E al processo per gli attentati è stato l’unico padre a testimoniare in aula. Mia moglie è sempre stata al corrente di tutto e mi ha sempre sostenuto. Tuttavia, ha rifiutato a lungo di incontrarlo: non si sentiva pronta, emotivamente».

Il libro che avete scritto insieme è frutto di una scelta coraggiosa e difficile: quella del dialogo.

«Ho accettato di incontrare Azdyne e poi di scrivere con lui nel contesto più ampio della lotta alla radicalizzazione perché credo sia fondamentale non cadere nella trappola del terrorismo, che mira a confondere musulmani, fondamentalisti e terroristi in un unico blocco. Non ho mai detto che il terrorismo jihadista non abbia nulla a che fare con l’Islam — i jihadisti si richiamano all’Islam, anche se la loro lettura del Corano è aberrante - ma non esiste un destino inevitabile che porti un musulmano alla radicalizzazione. Né un fondamentalista a diventare terrorista. Azdyne non è né un terrorista, né un fondamentalista. Quando l'ho incontrato era un musulmano poco praticante che si è riavvicinato alla fede solo dopo la “conversione” del figlio, ma in una forma pacifica. Ha vissuto la radicalizzazione del figlio, la sua partenza in Siria, il rifiuto di tornare, e infine il suo crimine orribile, come una serie di drammi personali. È stato lui a cercare me. Io ho accettato la sua mano tesa. Perché se rifiutiamo il dialogo con persone come lui, le condanniamo all’isolamento, lasciando campo libero ai fondamentalisti.

Con il libro A noi restano le parole (Giunti) speravo di mostrare che è possibile parlarsi, anche con chi non condivide le nostre idee. Ha avuto grande risonanza, è stato tradotto in quattro lingue, adattato per il teatro, e ci ha permesso di intervenire anche nelle carceri».

 



Qual è la differenza tra il dolore della famiglia della vittima e quella dell’assassino?

«Ne abbiamo parlato a lungo. La prima differenza è che la rottura tra Samy Amimour e la sua famiglia è iniziata molto prima del suo atto terroristico. Io, con mia figlia Lola, ho avuto un rapporto sereno e profondo fino alla fine. Invece, la radicalizzazione di Samy lo aveva già allontanato dalla famiglia: né il padre, né la madre, né le sorelle condividevano le sue idee. L’amore per lui c’era ancora, ma accompagnato da una crescente distanza, poi da un orrore insostenibile. Una delle sorelle, in particolare, ha scoperto di essere stata manipolata da lui, finendo nei guai con la giustizia. Il ricordo del figlio, per chi ha un figlio assassino, è inevitabilmente più doloroso di quello che può avere una vittima. Io di Lola conservo solo ricordi felici. Le famiglie dei terroristi portano inoltre un peso ulteriore: il senso di colpa. E il giudizio degli altri, che può arrivare dalle istituzioni stesse, sotto forma di controlli, denunce, interrogatori.

Un’altra differenza riguarda la possibilità di parlare. Nella mia famiglia si è sempre parlato molto di Lola. Nella famiglia Amimour, Samy e gli attentati sono un tabù. Questo silenzio è in parte culturale, in parte dettato dall’orrore».

Come è stata accolta la sua decisione di incontrarsi e dialogare, in particolare dalle famiglie delle altre vittime?

«Non ho avuto alcuna difficoltà su questo punto all’interno delle associazioni delle vittime: la mia scelta è stata ampiamente compresa. Sono stato attaccato sui social da alcune persone, in particolare dal padre di una vittima del Bataclan, ma si è trattato di una reazione isolata, proveniente da qualcuno molto impegnato in ambienti di estrema destra, quindi poco rappresentativo delle famiglie nel loro insieme».

Ci sono stati momenti difficili durante il vostro dialogo?

«Le nostre conversazioni si sono sempre svolte in modo sereno, sia prima che durante la scrittura del libro. Dopo la pubblicazione, abbiamo spesso partecipato insieme a conferenze, interventi nei media, incontri universitari e anche ad attività di prevenzione nelle carceri. Ovviamente, i nostri punti di vista divergevano su molti temi, ma questo non mi creava problemi: Azdyne riconosceva con lucidità la piena responsabilità del figlio per gli atti commessi, e i messaggi che trasmetteva al pubblico potevano risultare utili».

Siete ancora in contatto?

«Purtroppo col tempo ho visto cambiare Azdyne, e non in meglio. Sempre più spesso tendeva a considerare suo figlio solo come una vittima di manipolazione e a insistere sulle responsabilità politiche dell’Occidente. Ho anche notato che Azdyne rimaneva in silenzio — quando non mostrava addirittura il suo accordo — durante i nostri incontri con i detenuti di fronte a quelli che esprimevano opinioni omofobe, misogine o complottiste. Quando si parla con loro bisogna aiutarli ad assumersi le proprie colpe invece di incoraggiarli a sentirsi vittime del sistema. Nonostante questo, ho cercato a lungo di mantenere la nostra collaborazione, convinto che fosse importante mostrare che si può dialogare pacificamente anche partendo da posizioni diverse. Poi, però, durante un incontro in carcere, ha detto che suo figlio non era stato ucciso ma “assassinato”, raccontando una versione falsa dei fatti. Ho capito che non potevamo più lavorare insieme. Resta un amico, anche se da quell’episodio non ci siamo più sentiti. È un amico con cui posso non essere d’accordo, ma non è più qualcuno con cui possa apparire in pubblico».

Dieci anni dopo l’attentato, come si sente? Che cosa è cambiato in lei, e nel mondo?

«Non ho dimenticato nulla, soprattutto mia figlia, il cui ricordo accompagna ogni giorno della mia vita. Ma ho una moglie, dei figli, una nuora, due nipoti, amici, compagni. Tutti loro mi aiutano a vivere, e io devo vivere anche per loro. Sono preoccupato per lo stato del mondo: per la fragilità delle nostre democrazie, delle istituzioni internazionali, dei diritti umani — tutte conquiste preziose e difficili  - che oggi troppi sembrano disposti ad abbandonare; per la distruzione del pianeta, del clima, degli ecosistemi, che troppi leader e cittadini non vogliono vedere; per i conflitti sanguinosi, in Ucraina, in Medio Oriente, in Africa, massacri decisi da dirigenti cinici e irresponsabili.
Ma ho ancora un impegno che mi anima: è un impegno per la ragione, per la giustizia, per la fraternità, per la comprensione tra le persone e tra i popoli. È una lotta contro l’odio, la stupidità, il razzismo, l’intolleranza, l’egoismo. C’è molto da fare, nulla è scontato, ma resto ottimista e non rinuncio».

Restano le parole, dice il titolo del libro. Perdono, speranza e futuro? Ne  sono emerse altre?

«Il perdono è una nozione complessa: il male che è stato fatto non può essere cancellato. Ci sono innocenti a cui non si deve “perdonare”, ma riconoscere l’innocenza — come le famiglie dei colpevoli. Tuttavia, bisogna saper rinunciare alla vendetta, e se questo significa perdonare, allora posso dire che ho perdonato da molto tempo. La speranza e il futuro, certo — e quindi la speranza in un futuro migliore. È fondamentale non smettere mai di sperare, anche quando tutto sembra perduto. Ma occorre anche lucidità, realismo, pazienza a volte, e sempre saggezza. Forse sono queste le nuove parole che mi spingono a non forzare le cose e a non voler andare più in fretta di quanto sia umanamente possibile».