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È cominciato ieri, per 536.008 studenti italiani, l’esame di maturità, che dopo la formula esclusivamente orale scelta durante il Covid-19 è tornato ad essere articolato in 2 prove scritte (3 solo in alcuni casi) e un colloquio. Fra le tracce di italiano proposte, la più gettonata (43,4%) è stata quella tratta da Elogio dell’attesa nell’era di Whatsapp, un articolo del giornalista Marco Belpoliti incentrato sulla concezione che oggi si ha del tempo e sull’impatto che la tecnologia ha avuto su questa stessa concezione, mentre lo spunto che meno ha conquistato gli studenti (4%) è stato lo scritto L’idea di nazione del partigiano Chabod. Come mai questa disparità? Ne abbiamo parlato con Michele Diegoli, professore di filosofia che ha seguito i suoi ragazzi durante la prova.
1. Professore, come mai la traccia più scelta è stata quella di Belpoliti?
«Darei due tipi di risposta. La prima, è che sia stata una reazione epidermica: gli studenti sono stati toccati dal tema che sentivano maggiormente vicino al loro vissuto, hanno ponderato la scelta considerando che sicuramente avevano qualcosa da dire in merito. Ma intercettare la propria esperienza non significa appiattirsi su di essa: il rischio di scegliere una traccia simile – e qui sta anche la seconda risposta – è quello di finire per parlare solo di sé, come d’altronde è tipico degli adolescenti che a volte “guardano un po’ il loro ombelico”. Chi ha selezionato lo spunto di Belpoliti per poi allargare il discorso, per riflettere davvero sul tema dell’attesa o della noia ha fatto una scelta di serie A; altrimenti, ha solo fatto un selfie durato sei ore».
2. Come mai il testo di Chabod si è posizionato all’ultimo posto?
«La disaffezione nei confronti del tema storico ha una ragione tecnica: il pensiero e la storia del Risorgimento vengono affrontati in quarta superiore, non in quinta. Secondo me qui si tratta di un errore della traccia, perché si sarebbe potuto benissimo parlare di correlazione tra patria e umanità senza fare riferimento a una tradizione risorgimentale che probabilmente i ragazzi non ricordavano bene. Il tema del nazionalismo sarebbe stato un tema difficile, forse sfidante perché avrebbe costretto a esporsi, ma sicuramente molto bello: io lo avrei declinato in ottica europea, citando magari il Manifesto di Ventotene o le idee di Einaudi, e cioè concetti collocati nella storia del Novecento che è quella che viene effettivamente affrontata all’ultimo anno».
3. Secondo lei, può essere stata in parte una questione di tipologia del testo? L’articolo di giornale in fondo è più immediato e la risposta da dare più discorsiva, mentre in un testo argomentativo, come quello richiesto dalla traccia su Chabod, la difficoltà è maggiore...
«Secondo me, il testo argomentativo è un po’ una maledizione per i ragazzi, perché non sanno argomentare. Anche fra gli studenti del liceo è difficile far capire cosa significa costruire dei testi in cui le affermazioni sono giustificate. Per la struttura di apprendimento che stanno assumendo, gli studenti tendono ad essere paratattici, a fare degli elenchi, e quando poi si tratta di argomentare fanno una gran fatica. Più che il testo, allora, è stato il contesto a incidere. Siamo a una svolta epocale, di cui la scuola si rende conto a metà: i ragazzi non solo fanno fisicamente fatica a tenere in mano una penna per sei ore (sembrano i sumeri che devono incidere l’argilla!), ma sono abituati a pensare per immagini, per suggestioni. Eppure io, come un giapponese che non sa che è finita la Seconda guerra mondiale e continua nel suo lavoro, difendo a spada tratta la capacità di un ragazzo di ragionare, di leggere un romanzo, di pensare, anche se mi rendo conto che per certi versi è complicato».
4. Lei come ha visto i suoi ragazzi?
«Li ho visti abbastanza tranquilli. Sono una generazione fragile, ma di fronte alle prime prove della vita tengono botta molto più di quello che pensiamo».
(foto di copertina: ANSA)



