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Da undici anni l’Italia del calcio non va i Mondiali e sta rischiando non da ora di stare a casa un altro giro. Sarebbe sbagliato oltreché ingeneroso additarne come responsabile Rino Gattuso che si è fatto carico dell’ultimo miglio di una staffetta che ha al posto del testimone il candelotto di dinamite di Wile. E. Coyote. La crisi di talenti e di tecnica del calcio italiano parte da lontano e alla fine si fa con quel che c’è.
Undici anni sono il tempo in cui, rifondandosi da capo a partire dai tecnici e dalle strutture del settore giovanile, il tennis maschile è uscito da 30 anni di crisi di talenti, che con ogni probabilità c’erano anche prima ma si perdevano per strada.
Quello che dobbiamo chiederci non è, se non limitatamente, che cosa può fare Gattuso per portarci ai Mondiali superando le forche caudine di due partite secche di play off dentro fuori alla fine del prossimo marzo ma che cosa avrebbero potuto e dovuto fare il calcio come sistema, e la sua Federazione, per ripensarsi e provare a risolvere la crisi di risultati e rimpolpare la rosa striminzita della Nazionale.
La si potrebbe chiamare crisi di talenti, ma è improbabile che, essendo tuttora il calcio lo sport più praticato dai ragazzini, non trovi nel mucchio la stessa percentuale di qualità di base che trovano gli altri sport, meno praticati. Deve trattarsi di un problema di formazione a qualche punto della catena: probabile che i talenti ci siano tanti quanti nelle altre discipline, ma che si sbagli qualcosa a un certo punto del percorso, che non si riconosca il talento quando c’è o che qualche ostacolo nell’organizzazione, a livello tecnico o di altra natura, a un certo punto gli impedisca di maturare e svilupparsi.
Ci si domanda: la Federeazione ha trovato il tempo dal 2014, data dell’ultimo Mondiale, a qui, di studiare e di interrogarsi in maniera men che empirica alla ricerca di quello che non funziona nel settore giovanile, nel metodo di chi è chiamato a formarlo, nel modello che gli si applica?
Di certo non ci si può più accontentare della spiegazione ricorrente da decenni secondo cui il problema, che con ogni evidenza è soprattutto un deficit di tecnica, starebbe nel fatto che non si gioca più nelle strade di polvere. Da troppo tempo non si gioca più per strada in Europa, ma non sono tutti messi male come noi, e nulla impedirebbe, comunque, di lavorare di più o meglio sulla tecnica sui campi pettinati delle scuole calcio.
Evidentemente qualcosa non torna nella quantità o nella qualità o nel metodo che si riserva a questa componente.
È chiaro che nessuno può programmare Erling Halaand, come non si programmano Jannik Sinner e Carlos Alcaraz, ma forse qualcosa si può fare per migliorare la media. Forse è venuto il tempo di smettere di guardare al breve periodo del prossimo risultato – nella fattispecie alla qualificazione che quand’anche arrivasse non risolverebbe il problema ¬ e di alzare lo sguardo e programmare più lontano, sul lungo periodo.
Ma serve il coraggio di cambiare, a costo di sparigliare le carte, di terremotare lo status quo, di scontentare chi vi si sia adagiato. Tennis, pallavolo, atletica, hanno dimostrato di saperlo fare: quando quello che si definisce sport maggiore troverà l’umiltà di andare a vedere se in quei modelli, che fino a ieri ha non senza spocchia chiamato minori, cc’è qualche spunto che si possa adattare al pallone, non per importarlo pedissequamente per capire se c’è qualcosa di utile da imparare?



