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È una Sofia Goggia pacata e riflessiva quella che torna a parlare, in collegamento da casa, dopo un mese e mezzo di silenzio a seguito del terribile infortunio che l’ha fermata in allenamento il 5 febbraio scorso.
Misura le parole, anche perché ha una storia dura da raccontare. La prima immagine del suo dramma, dopo la notizia dell’ennesimo infortunio mentre comandava la classifica di discesa Sofia Goggia mesi fa, l’ha resa in pubblico postando un abbraccio con il papà: «L'ho fatto perché quando ti senti sola nel buio è quello di cui ha bisogno: i punti di riferimento affettivi. L’unica cosa che conta».
Il racconto dell’odissea vissuta fin qui è doloroso anche soltanto da ascoltare: «Non ho parlato prima perché non mi sembrava sensato farlo prima dei controlli e prima di porter dare qualche certezza sulle mie reali condizioni. L’impatto è stato fortissimo, mi ha frantumato la tibia in più parti – praticamente un puzzle, dice a un certo punto – nella parte più bassa a ridosso dell’articolazione della caviglia, per questo le premesse dell’intervento erano estremamente complicate. La Tac molto chiara mostrava l’osso molto frammentato: già riuscire a ricostruirlo era un’impresa. Quello che adesso possiamo dire è che l’intervento risulta perfettamente riuscito e questo è un buon punto di partenza per il recupero».
Ma ovviamente ci vorrà tempo e lavoro, è necessario darsi tutto il tempo per consolidarlo: «Ho una piastra che tiene la parte davanti della tibia, e poi sale sulla tibia. È servito un taglio lungo perché hanno dovuto prima scollarmi tutti i i tendini e i nervi. I primi venti giorni sono stata davvero malissimo». Il momento più difficile è venuto dopo l’intervento ancor più che al momento del trauma: «Mentre ancora aspettavo i soccorsi avevo già capito che la mia tibia era andata a pezzi, però sono riuscita quasi a togliermi lo scarpone da sola e ad arrivare a Milano senza antidolorifici. I 20 giorni successivi all'intervento sono stati invece fisicamente devastanti, di fatto non ho dormito, non riuscivo a stare in piedi né seduta, anche se sono stata subito seguita a casa da fisioterpisti, in modo da non spegnere del tutto il sistema muscolare e nervoso».
Il difficile arriva lì con un Everest davanti e il buio dentro: «Passi dal letto al divano, dal divano al letto e ogni volta che ti alzi ti viene da svenire per il dolore, e intanto ti senti al fondo dovendo dipendere 24 ore su 24 da qualcuno perché non puoi fare niente da sola neanche se strisci per terra come un marine».
A chi le chiede che cosa accada emotivamente quando si attraversa l’ennesimo momento così, risponde: «Ho capito subito che era grave, non sono qualche riuscita a pensare a nulla: solo un senso di sgomento, di dispiacere enormi ed è stato difficile per me una volta che sono accorsi preparatore, allenatore e skiman dover dire: "Ragazzi, mi sono rotta la tibia" Per 20 giorni ho visto nero, ero emotivamente, profondamente, disperata dentro di me: chiaramente parlo del fatto che fa i conti la propria realtà emotiva. So benissimo che nel mondo ci sono drammi ben peggiori rispetto al fatto di rompersi gamba per un’atleta, ma sappiamo anche che per un atleta non c'è nulla di più difficile forse di dover affrontare un infortunio, visto che comunque questo non è il mio primo ma è stata la mia settima operazione. Per farmi forza in elicottero ho pensato che nel mondo c'erano drammi ben più gravi dal mio. Mi sono quasi sentita diciamo così di andare oltre a quella che era la mia sofferenza localizzata e ho pensato proprio: “non sono sotto le bombe di Gaza. Quindi di cosa stiamo parlando? Ho cercato di votare lo sguardo oltre, in una panoramica molto più ampia, dove ci sono tantissimi contesti di sofferenza di ambiente più gravi della frattura di una gamba da cui però poi si guarisce».
Ma un contro è dirselo razionalmente, altro è affrontare la dimensione emotiva che comunque c’è e pesa: «Per 20 giorni ho vissuto come se il futuro fosse un pannello nero, quasi mi sono arrabbiata nei giorni in cui ero in ospedale con quel comunicato della Fisi che ha riportato parole che io ho sempre ricordato in tutti i miei infortuni sin dall'inizio: “Tornerò anche questa volta”, ma che in questo giro quasi non sentivo mie. Poi ho iniziato a lavorare con i fisioterapisti a casa, il piede cominciava a migliorare, mi sono spostato in palestra, ho iniziato ad andare in piscina diciamo, ho trovato di nuovo un po' la mia indipendenza. I miei programmi adesso riguardano molto il quotidiano. Chiaramente abbiamo fatto delle programmazioni di obiettivi, scanditi dai tempi di guarigione. Credo che il recupero non sarà tanto difficile a livello a livello fisico, perché una volta che si salda l'osso poi ti senti in grado di poter progredire con quelle i carichi e tutta la riabilitazione del piede, che è sicuramente non è facile però sono disposta a farla perché voglio guarire».
Ma è una conquista cui emotivamente si arriva col tempo: «Nell’immediato la cosa che mi ha fatta più male è stato il modo: se ti fai male magari in gara quando vai a 140 e stai spingendo sei al limite lo accetti di più, quando invece sta andando tutto bene, hai appena fatto un weekend italiano faticoso, hai deciso di riposare a casa tre giorni dedicandoli al mantenimento fisico e ti fai così male in un allenamento che definirei tranquillo è veramente difficile da accettere. All’inizio allo sci non riuscivo neanche a pensare: mi dicevo “ma dove vuoi andare”? Dopo che hai fatto tutto per bene, per evitare che ricapitasse ritrovarti lì ancora in mezzo ai dottori che ti operano è davvero dura. Domenica sono rimasta choccata dalla caduta di Marta Bassino (per fortuna senza gravi conseguenze ndr), mi sono rivista come in un flashback perché la dinamica era molto simile alla mia».
Dopo tutto questo parlando di come si sente, sapendo che tutto è relativo Sofia ammette: «Sinceramente in questo momento sto bene si sta intravedendo la formazione del callo osseo, ma avendo diciamo al posto di un osso dei pezzettini di puzzle ho bisogno di tempo. Mi han detto che il tempo di recupero sugli sci avrebbe richiesto sei mesi, secondo gli standard medici. Ma che una volta che si è saldato l’osso si può iniziare anche prima, altre volte sono riuscita a recuperare in anticipo, ma non voglio forzare: mi sto focalizzando molto su quello che c'è da fare ogni giorno. Il lavoro è tantissimo».
Sofia che c’è passata tante volte lo sa: «La consapevolezza è un'arma a doppio taglio, perché se da un lato hai esperienza negli infortuni, sai già quale sarà il tipo di percorso, dall'altro lato proprio perché conosci le tappe, sai anche la mole di sofferenza, di lavoro che avrai dinanzi a te e conosci l'impegno che dovrai metterci per avere nuovamente un fisico».
Nel mentre Sofia ha cercato di mettere a frutto la sosta, di non perdersi nonostante il dolore: «Per fortuna il tempo è democratico, come prova il cronometro delle gare, 24 ore passano nello stesso tempo per tutti, anche se quando stai male sembrano lente: per fortuna avevo il mio percorso universitario, cerco di sfruttare il tempo che ho a disposizione in modo da portarmi avanti e studiare per dare più esami possibili. Volevo iniziare un po' a suonare il piano, ma facevo fatica a stare seduta fino due settimane fa. All'inizio ho fatto proprio fatica a fare qualsiasi cosa perché mi sono sentita annientata, annichilita: ma ci sto provando, ho fatto due esami, non ho altri 4 in pancia, spero 5. Ce la sto mettendo tutta per impiegare il mio tempo in maniera costruttiva». Lo sci tornerà, a tempo debito. Perché nel mondo di Sofia la parola resa non esiste.



