Come si dice per le rettifiche, a noi la smentita sullo stato di burocrate di Juncker pare un’ammissione data due volte. Com’è noto, il nuovo presidente della Commissione europea ha esordito con un assordante “non ci sto”. Non ci sto su che cosa? Sull’immagine di burocrate che hanno i vertici di Bruxelles. E il primo destinatario di questo “non ci sto” è stato proprio il nostro Matteo Renzi. Il sessantenne lussemburghese Juncker, la cui nomina è un compromesso tra popolari e socialisti europei, ha gridato addirittura al sabotaggio. “Ho la ferma intenzione di reagire con energia alle critiche ingiustificate da qualunque parte vengano. Dire che la Commissione è fatta da burocrati o dire che non si accettano lezioni dai burocrati non è una cosa che mi piace, sono capo di 27 commissari politici e non siamo burocrati, siamo politici".

Peccato che l’immagine dei politici di Bruxelles sia quella che è. Sono anni che non ci ricordiamo decisioni “politiche” che vadano oltre l’invito al rispetto contabile dei bilanci e alla minuziosa regolamentazione delle normative agricole. Tutte improntate al rispetto dei vincoli di Maastricht, secondo una “logica aritmetica”, come ha detto il sottosegretario del Consiglio Sandro Gozi, da bravi tecnocrati, pochissime volte allo sviluppo economico del Paese e sempre a un’austerity che ha contribuito a creare milioni di disoccupati e una marea di populismi che ha rischiato di travolgere tutto. La controprova? Finora i fondi predisposti per lo sviluppo non sono mai stati stanziati. Come ha ricordato l’economista francese Jean Pisani-Ferry hanno fallito nel 1993 con il piano di crescita e competività di Jacques Delors, nel 2000 dopo gli accordi di Lisbona e nel 2012 con l’accordo dell’Eurogruppo con l’Accordo per la crescita e il lavoro. Che altro serve per definirsi tecnocrati? La sensazione, purtroppo, è che i neo eletti non si rendano conto di dove stanno.