Della proposta di allungare i tempi di congedo parentale da cinque a sei mesi, di cui uno riservato ai neo-padri (e non trasferibile alla madre), non si può che pensare bene, per svariate ragioni, anche diverse da quelle che emergono dalle dichiarazioni di chi ha avanzato la proposta. Da queste, infatti, si deduce che la spinta principale al provvedimento ipotizzato sia il superamento del gap salariale tra uomini e donne, spesso dovuto al fatto che queste ultime restano indietro nella carriera perché si devono occupare della cura dei figli e della famiglia.

Accanto a questa ragione, però, ci pare importante sottolineare come, nel contesto culturale tipico della società italiana, il coinvolgimento dei padri nella cura dei figli appena nati significa molto di più che un (sacrosanto) aiuto alle possibilità di carriera delle mogli/mamme. Significa infatti cominciare togliere dalle spalle di queste ultime il peso – sopportato quasi in esclusiva – psicologico nonché concreto della cura e dell’accudimento del figlio piccolo. L’arrivo di un nuovo “cucciolo” nel sistema familiare è, infatti, una vera e propria rivoluzione, un cambiamento di ritmi e tempi, una limitazione della libertà e dell’autonomia degli altri membri del sistema. E molto spesso – troppo spesso! – questo “cataclisma” arriva addosso alla donna/mamma in misura incommensurabilmente maggiore che all’uomo/padre. È questa, non a caso, una delle ragioni principali della scarsità di nascite che affligge l’Italia, accanto ovviamente alla mancanza di sostegni economici e di servizi adeguati a chi decide di fare figli.

Per questo, un provvedimento che promuova il coinvolgimento dei padri in modo decisamente consistente nelle complesse dinamiche che insorgono dall’arrivo di un figlio, mettendo fine al balletto vergognoso in base al quale in un decennio siamo riusciti solo a portare i giorni di congedo dei “maschietti” da uno a sette, è da salutare positivamente. Non a caso, in molti Paesi europei i congedi parentali riservati ai padri sono estremamente significativi: in Austria, da 2 a 4 mesi, in Germania 2 mesi (che portano il totale dei mesi pagati a 14), in Svezia il 20% del totale dei mesi previsti, (come questa proposta punta a prevedere anche per l’Italia). E sono tutti Paesi che hanno un tasso di natalità nonché un tasso di occupazione femminile decisamente superiori a quelli dell’Italia.

Tutto bene quindi ma … con una (inevitabile, ahinoi!) avvertenza: visto che si tratta di un intervento di politica familiare, la proposta riuscirà a diventare un provvedimento effettivo, capace di incidere positivamente sulla vita delle famiglie, o finirà come troppo spesso è successo nel limbo dei buoni propositi, di cui è lastricata la via dell’inferno, come dice la saggezza popolare?

Che peraltro noi potremmo tradurre così: la via che ci sta portando,  mestamente,  a diventare un Paese sempre più vecchio, sempre meno attrattivo, sempre più prossimo alla sparizione.