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«C’è un concetto ebraico, quello del Tikkun Olam, che significa “rammendare il mondo”, nel senso vero e proprio, con ago e filo laddove ci siano stati degli strappi, come la Shoah che è stata una lacerazione enorme», lo racconta Rossana Ottolenghi, e poche immagini potrebbero rappresentare meglio quello che è successo la scorsa estate tra lei e Maite Billerbeck. Il nonno di Rossana, Alberto Behar, era il proprietario dell’Hotel Meina e assistette impotente alla strage di ebrei avvenuta sul lago Maggiore nel settembre del 1943, in tutto 57 vittime ufficiali ma il numero fu sicuramente superiore. Tra queste 16 suoi ospiti che le SS portarono via e trucidarono dopo averli derubati. I Behar si salvarono perché di nazionalità turca e inizialmente non potevano essere arrestati. Fuggirono pochi giorni dopo e, in seguito raggiunsero la Svizzera.
La sua mamma, Becky Behar, scomparsa nel 2009, allora aveva quattordici anni ed è vissuta perché nessuno dimenticasse. E Rossana ha preso il testimone. Ma mai si sarebbe immaginata che la vicenda si potesse arricchire di un tassello che ha dell’incredibile. Lo ha aggiunto Maite Billerbeck, 54 anni, berlinese che in famiglia sentiva spesso dire che il prozio Hans era, “tanto bravo nonostante quello che si diceva avesse fatto…”. E se da ragazzina questa mezza frase sembrava non toccarla, da adulta cominciò a roderle dentro qualcosa. Decise di capire. Bastò digitare Hans Röhwer in Google e scoprire che era stato un ufficiale delle spietate Waffen-SS, e che ordinò e partecipò alla strage. Un vero e proprio shock per Maite che la portò a decidere di incontrare i discendenti di chi aveva subito tanta violenza: «Riuscì a mettermi in contatto con Rossana e inizialmente ci scrivemmo fino a che non mi invitò a passare a trovarla con la mia famiglia in Liguria. Non sapevo cosa aspettarmi. Se saremmo state in grado di parlare apertamente, se avremmo potuto sviluppare un legame…».
Rossana non ama il facile perdonismo, tra l’altro ci spiega «dal punto di vista della tradizione ebraica, nessuno può perdonare al posto di chi è stato offeso, in questo caso al posto di chi è morto nella strage. Con che diritto potrei perdonare qualcosa che non ho subito?». Ma quando venne contattata decise di fidarsi del suo intuito: «All’inizio abbiamo parlato del mare, della giornata, di quanto è bella l'Italia, ma si faceva un po’ fatica a entrare in argomento. Poi ho rotto il ghiaccio e le ho detto “Beh, sappiamo perché ci stiamo incontrando. Qual è il tuo progetto? Che cosa hai in mente…”. Maite non cercava perdono, mi ha semplicemente narrato la sua storia».
E così ha raccontato dei segreti nella sua famiglia, del suo sconcerto nello scoprire l’identità del prozio, del viaggio a Meina per vedere i luoghi della strage subito dopo. E poi finalmente l’incontro con Rossana: «Mi sono sentita immediatamente molto legata emotivamente a lei e ci siamo parlate in modo confidenziale. È stato liberatorio e mi ha dato il coraggio di accettare il suo invito a Meina, il settembre successivo, per parlare pubblicamente in occasione degli ottanta anni della strage. Oggi, dopo tutto quello che abbiamo vissuto insieme è nata un'amicizia».
Due donne che scelgono di ricucire: «Abbiamo ereditato una storia, io dalla parte delle vittime, lei dei carnefici. Entrambe siamo psicoterapeute, un lavoro che ha che fare con la narrazione. In effetti è significativo. E poi il fatto di essere donne ci ha permesso di lasciare più spazio alla nostra parte emozionale», riflette con noi Rossana. E Maite aggiunge, «posso immaginare che le donne tendano a trovare più facile la riconciliazione, poiché spesso trovano più facile accedere alle questioni emotive o sono interessate ad esse, ma sono sicura che ci siano sicuramente anche molti uomini che sarebbero in grado di fare quello che abbiamo fatto noi». E lo dice nonostante abbia visto da vicino quanto sia facile invece dimenticare e negare.


Negare al tal punto che Hans Röhwer pur avendo subito un processo nel 1968 conclusosi con il proscioglimento degli imputati che vennero scarcerati dichiarando i reati prescritti, con sentenza definitiva dell’aprile 1970, ha vissuto una vita normale, amato e rispettato dalla sua famiglia. Come ha potuto farlo con un simile passato?
«Mi è molto difficile rispondere» riflette la pronipote, «soprattutto perché non sono riuscita a farmi un'idea della sua "conformazione psicologica". Posso spiegarlo, come nel caso di migliaia di altri carnefici, che i crimini sono stati semplicemente scissi, supportati da altri meccanismi di difesa come la negazione e la proiezione. Solo così si può capire come sia stato possibile che gli autori del reato si siano ritrovati molti anni dopo sul Lago Maggiore per "incontri di veterani" e che abbiano ostinatamente negato nel processo che vi fosse stato un massacro e che loro ne furono responsabili. Si tratta di una "disumanizzazione" inerente all'ideologia nazista e al genocidio e alla base di crimini così terribili. Sfortunatamente pochi furono in grado di prendere coscienza e riconoscere le proprie azioni disumanizzanti e il senso di colpa ad esse associato. Il mio prozio non fu uno di questi».
Oggi Rossana e Maite non sono solo diventate amiche ma perseguono lo stesso obiettivo, «era quello di mia madre» dice Rossana, «e oggi è il mio, fare memoria. Non basta essersi abbracciate. Non si può ora proseguire per la propria strada». Tra i tanti progetti in cui raccontare per non dimenticare hanno in mente uno scambio di scolaresche tra Berlino e Meina e continuare a lavorare nelle scuole perché c’è molto lavoro da fare: «Ma sappiamo che non ha vinto il male», conclude Rossana, «Maite sa che non ha vinto quella parte strappata della sua famiglia e io so che, se sono qui a raccontarlo, significa che il progetto di Hitler di genocidio non è riuscito. Mi piace ricordarlo ai ragazzi perché hanno bisogno di speranza».
Speranza che sembra venire meno, proprio in questi giorni, in cui nonostante anni e anni di impegno a non dimenticare, l’orrore dell’antisemitismo, in seguito al conflitto tra Israele e Gaza, sembra ripresentarsi. Ed è una cosa che fa paura. «È anche questo uno strappo di cui non c’è bisogno e non c'è motivo. Le cose si possono studiare, anche se sono complesse, per comprendere in questo momento in cui molti sono contro Israele, che non ci sono tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dell'altra. Ma, come ho già detto, laddove ci sono questi strappi nella storia abbiamo il compito di rammendare. È un lavoro lungo e ci vuole pazienza. E questo incontro con Maite è avvenuto in quest'ottica, cioè due generazioni dopo ci siamo incontrate, guardate in faccia e abbiamo compreso il dolore di ciascuna».



