Nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, che è il giorno della massima esibizione dei simboli, oltreché il giorno in cui il terzo Potere esprime allo Stato e all’opinione pubblica il resoconto del proprio lavoro e mette sul piatto pubblico i problemi nella veste più formale, scoppia il caso di Forum, storica trasmissione televisiva, in cui Melita Cavallo, giudice ordinaria in pensione, con una lunga e autorevole storia professionale, - “recitando” la funzione del giudice - ha fatto affermazioni che, in tema di colpevolizzazione delle vittime di reati di violenza di genere, hanno scatenato la reazione indignata di Telefono rosa che l’accusa di riportare indietro la cultura, faticosamente conquistata, al tempo di 1912+1 di Leonardo Sciascia; di far retrocedere il contrasto al pregiudizio – duro a morire - secondo cui una donna vittima di una violenza alla fin fine se l’è cercata.

I problemi sono due. Il primo è quello che sta facendo discutere i media: il rischio di far passare al pubblico generalista della Tv, che poco comprende le sfumature, messaggi potenzialmente distorti. Non di rado infatti le vittime di violenza partecipano del pregiudizio che le fa sentire colpevoli. Il secondo problema riguarda l’immagine pubblica del magistrato come singolo e come figura. Può un magistrato, ancorché ex, recitare la propria funzione, in un programma ultrapop antesignano del reality - dove i piani tra realtà e finzione si mescolano -  senza prestarsi a confondere il pubblico, ma soprattutto senza mettere a repentaglio l’immagine propria e della funzione delicatissima che ha rivestito e, indirettamente, dei colleghi che ancora la stanno rivestendo?

Il problema fin qui non si era posto o si era posto di meno, giusto o sbagliato che fosse, perché non si era alzato il polverone di un’affermazione controversa, perché non c’erano i social ad amplificare il tutto e forse anche perché di solito fin qui i “giudici” di Forum erano stati reclutati in prevalenza tra avvocati (liberi professionisti) e giudici onorari (cioè non di carriera).

È una domanda aperta, il dibattito sulla cosiddetta “giustizia-spettacolo” entra ogni anno ed entrerà fatalmente anche nelle relazioni di inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione e nelle corti d’Appello in queste ore. La complessità del problema aumenta con il passare degli anni: viviamo in un mondo in cui Internet amplifica tutti gli aspetti dell’immagine nel bene e nel male e rende visibili a molti e “perpetui” episodi che solo pochi anni fa sarebbero rimasti confinati in ambiti ristretti e circoscritti nello spazio e nel tempo.

Fermo restando il fatto che la giustizia e i tribunali agiscono da sempre entro un’intrinseca teatralità: il luogo, i simboli, la veste, come del resto avviene nella liturgia, – guarda caso quando si fa riferimento alla procedura penale o civile si parla di “rito” – fanno parte di una forma simbolica che diventa sostanza. E fermo restando il fatto che «La funzione del rituale giudiziario», come spiega Antoine Garapon, «è delimitare uno spazio tangibile che ponga un argine all’indignazione morale e alle passioni pubbliche, assicurare al dibattimento il giusto tempo, fissare le regole del gioco, convenire su un obiettivo, istituire gli attori».

Che cosa succede quando questo rituale si sposta nella finzione televisiva in cui un ex giudice ordinario, vero, gioca a giudicare figuranti davanti a un pubblico che potrebbe ricavare da lì, e magari chissà solo da lì, la propria immagine della giustizia, senza ben capire che è tutto finto, recitato? Dov’è il limite entro il quale si può accettare di rappresentare la propria funzione nella finzione teatrale senza mandare tutto all’aria? Capita, per esempio, che nel chiuso di un teatro a scopo didattico e storico e si “processino” i personaggi della Storia, ma lì si tratta chiaramente di storia, non c'è possibilità di equivocare i piani. 

Nessun Consiglio superiore ovviamente, nessuna norma può limitare la rappresentazione di sé di chi da giudice è diventato ex ed è come tale liberissimo privato cittadino non più ancorato ad alcuna deontologia, solo il "Foro interiore" di ciascuno può decidere fin dove ritenga se sia il caso o meno. Resta forse un problema di opportunità - dato che c'è il rischio di prestarsi ad alimentare l'equivoco tra giustizia e teatro in un'utenza già molto confusa - per il quale verrebbe da augurarsi che quel Tribunale interiore sia almeno un po' severo.