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La vicenda delle minacce social a don Mattia Ferrari, cappellano della nave Mediterranea Saving Humans, è arrivata a giudizio. È stato identificato il titolare dell’account @rgowans su X, autore degli attacchi al sacerdote modenese impegnato a difesa degli ultimi e dei migranti. Dopo un’indagine in campo internazionale il cerchio si è chiuso. Don Mattia è il “prete dei migranti”, ma soprattutto un uomo che ha scelto di restare accanto agli ultimi: nel mare, nei porti, nelle periferie del cuore. Nel recente incontro con i Movimenti Popolari papa Leone XIV ha rilanciato l’appello di papa Francesco: «Terra, casa e lavoro» non sono concessioni, ma diritti sacri. Con parole forti ha denunciato l’indifferenza che trasforma i migranti in scarti, le disuguaglianze crescenti e i “danni collaterali” di un progresso tecnologico che spesso dimentica l’uomo. Un richiamo che tocca tutti: la Chiesa, la politica, le famiglie. È la stessa voce che invita a tornare al Vangelo concreto di San Francesco, modello di una fraternità che non esclude nessuno. Abbiamo incontrato don Mattia per riflettere sul messaggio del Papa, sull’accoglienza che diventa speranza e sulla fede che nasce dall’incontro con chi non ha più nulla, ma porta dentro un mondo.
L’autore delle minacce nei suoi confronti è stato identificato. Come vive, da prete e da uomo, questa vicenda?
«La cosa bella è che non è stato un lavoro solitario, ma il frutto di una rete: avvocati, giornalisti, archivisti e istituzioni hanno collaborato per scoprire che dietro l’account @rgowans c’era Robert Brytan, un dirigente informatico legato all’ambiente Frontex. È stato un lavoro paziente, collettivo, e questo dà speranza. Ma il punto non sono io. Il vero dramma è quello dei migranti respinti e torturati in Libia, delle vite spezzate ogni giorno. Penso a Quftu, la ragazza etiope morta a Tripoli al nono mese di gravidanza, dopo stupri e violenze. È lei che deve restare nel cuore. Quando tacciamo, quando giriamo la testa dall’altra parte, diventiamo complici di queste tragedie».
Papa Leone ha detto che respingere i poveri è respingere la pace.
«È un discorso profondamente evangelico. Se la Chiesa non sta accanto agli ultimi, perde senso. Papa Leone ha ricordato che Dio ama i poveri e che da loro può rinascere la civiltà dell’amore. Non è retorica, è il Vangelo di Luca: “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio”».
Il Papa ha ribadito che “terra, casa e lavoro” sono diritti sacri.
«Lavoriamo da anni, con i movimenti popolari, per difendere questi tre diritti legati alla dignità della persona. La Chiesa non deve sostituire ma accompagnare chi li difende, non come osservatore ma come madre e sorella. Papa Francesco ci ha insegnato a costruire un’economia “con e per i poveri”, in cui gli esclusi diventano protagonisti. Serve un’alleanza globale contro l’esclusione».
Il Pontefice ha richiamato anche la responsabilità nelle nuove tecnologie e nei linguaggi dei social.
«Sì, perché dietro a ogni nome ci sono volti. La propaganda, soprattutto sui social, tende a cancellare l’umanità delle persone. Papa Leone ha ragione quando parla di “bulimia di connessioni” e ci invita a tornare a parole più oneste, più vere».
Ha parlato di migranti trattati come spazzatura. Nella sua esperienza, che cosa significa concretamente?
«Significa respingerli verso l’inferno libico, significa ignorarli quando chiedono aiuto. Ma la responsabilità non è solo della politica: è anche nostra, come società e come credenti. Ogni volta che restiamo indifferenti, partecipiamo a quella cultura dello scarto».
Lei coordina anche la piattaforma mondiale dei Movimenti Popolari. Come vive la continuità tra Papa Francesco e Papa Leone XIV?
«I due Papi condividono una visione di Chiesa “in uscita”, che ascolta e accompagna. I movimenti popolari sono la prova vivente di questa sinergia: uomini e donne che trasformano la fede in impegno, nella logica del servizio e non del potere».
Papa Leone ha ricordato che non si può sacrificare l’umanità dei migranti in nome della sicurezza. Come conciliare accoglienza e ordine?
«Accettando la complessità, come diceva Papa Francesco con l’immagine del poliedro. La pastorale deve saper tenere insieme le differenze, accogliere le fragilità, mettere sempre al centro la dignità della persona. Anche nella politica serve discernimento, ma partendo da questi pilastri evangelici».
Il Papa ha denunciato anche la piaga delle nuove droghe e delle dipendenze. Cosa vede da vicino?
«In Europa lo vedo meno, ma nei Paesi poveri è una tragedia. Il narcotraffico si alimenta dell’esclusione sociale. I movimenti popolari combattono anche questo: salvano le persone prendendole per mano. Il contrario della droga è la fraternità».
La Global Sumud Flotilla è stato un atto politico, un atto di fede o di umanità?
«Tutte e tre le cose. È un segno profetico. C’è un grido che sale dai popoli: è un grido di giustizia. Dobbiamo metterci in ascolto. Partecipare è uno dei pilastri della dottrina sociale della Chiesa. La fede non è passività, è azione».
C’è un volto o una storia che l’ha cambiata?
«Tanti. Ma penso a Pato, un uomo che ha perso moglie e figlia nel deserto tra Libia e Tunisia durante un respingimento. Un simbolo di sofferenza ma anche di fede e resilienza dei migranti. Quando lo incontrai, compresi davvero cosa intendeva Papa Francesco quando diceva che chi aiuta i poveri è “salvato” da loro».
Lei ha raccontato questa esperienza nel suo libro “Salvato dai migranti”(Edb), con la prefazione di papa Francesco.
«Sì, è proprio così: noi li soccorriamo, ma sono loro che ci salvano. Ci liberano dalle nostre paure, dai nostri pregiudizi, dalle nostre prigioni mentali. È il paradosso della salvezza rovesciata».
Mediterranea riunisce mondi diversi: Chiesa, centri sociali, credenti e non credenti. Cosa vi tiene insieme?
«La dignità della persona umana, la fraternità, l’amicizia vera con gli “scartati”. Chi vive queste relazioni scopre che l’altro non è un problema ma un dono. È l’esperienza che ci salva ogni giorno, e che dà senso concreto al Vangelo».



