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di Stefania Bartoccetti, fondatrice di Telefono Donna Italia*
Una premessa generale: il reato di omicidio prevede pene proporzionate alle modalità riscontrate nell’azione delittuosa. Questo spiega il motivo delle diverse sentenze relative al medesimo reato, l’omicidio appunto. Con l’introduzione del reato di femminicidio, l’attenzione si è spostata sul tema di genere: la vittima è una donna. E allora serve ricostruire le circostanze di un tale reato: la donna uccisa dal proprio partner era o è legata ad esso; addirittura, convivevano sotto lo stesso tetto e spesso hanno cresciuto figli insieme. Lo sottolineiamo: vittima e carnefice hanno vissuto insieme. Questo aspetto, unito al tema di genere, fa sorgere una domanda, sempre la stessa in verità: cos’ha di diverso l’omicidio dal femminicidio?
Per esempio, che l’uomo non è la donna (omicidio e femminicidio), che, nel caso di reati contro la persona, si traduce in ciò: per un uomo, uccidere una donna è agire anche con vigliaccheria, perché la donna ha minori difese fisiche rispetto all’uomo; inoltre, il femminicidio ha sempre un presupposto affettivo. Allora sì: uccidere l’amore rende più odioso il reato. Allora sì: nel reato di femminicidio si riconosca l’azione compiuta in un contesto familiare, luogo di incontro e di amore più che di scontro.
Ma non è tutto: uccidere una donna è, in molte circostanze, uccidere anche un’altra vita, quella della figlia o del figlio. È una morte metaforica, ma sempre di lutto stiamo parlando. Quindi, il reato di femminicidio è, nella stragrande maggioranza dei casi, sempre una duplice morte. Perché è allora diverso dall’omicidio il femminicidio? Perché l’uomo che uccide una donna, la sua, sa di compiere una duplice morte, sa di infierire anche sulla vita della figlia o del figlio. Quindi sì: il reato di femminicidio, che è sempre preceduto da contesti e circostanze note al carnefice, deve prevedere una pena diversa da quella dell’omicidio.
Ma serve anche sganciarci dal tema giurisprudenziale ed entrare in quest’altro: dove si crea il vulnus tra chi uccide la propria partner e tutti i messaggi sociali e istituzionali che, almeno da vent’anni, invadono i mezzi di comunicazione? Cosa non funziona in quei messaggi se le vittime di femminicidio aumentano anziché diminuire? Perché il femminicida sembra mosso anche dal disprezzo e dal calcolo della morte, visto che programma la morte della sua partner. Il femminicida sta costruendo la morte; è un architetto del dolore. Non basta allora questo per rendere più grave il suo reato?
Eppure le campagne della comunicazione dicono tutto sul tema del femminicidio: chi lo compie non è due volte responsabile? Avrebbe gli strumenti per capire e fermarsi, ma procede verso la sua meta senza sentire ragioni. Allora sì: verso uomini che non sentono ragioni ma seguono solo il proprio istinto omicida, forse è venuto il momento di essere senza ragioni nel concedere attenuanti. Perché è tempo di guardare negli occhi il femminicida e dirci: non ha fermato in tempo la sua mano che si portava via due vite. Quale altro reato è più cieco di quello? Cieco due volte: perché aveva visto, nonché vissuto, con tutte e due. E non gli è servito a niente.



