«Amis, ve racumandi la baracca», furono una delle ultime frasi di don Gnocchi prima di morire. E quel monito, a giudicare i conti della "baracca", ovvero della Fondazione creata dal sacerdote proclamato beato che era stato cappellano degli alpini, è stato rispettato. Consolidamento economico, innovazione tecnologica e prossimità sono infatti i tre pilastri che emergono dal bilancio 2024 approvato dalla Fondazione Don Gnocchi, che resta un punto di riferimento nella sanità italiana. In continuità con il carisma del Beato Carlo Gnocchi, per un welfare sempre più umano, vicino, giusto, che sappia prendersi cura delle persone più fragili, come spiega don Vincenzo Barbante, presidente della Fondazione don Gnocchi, figura di riferimento con una lunga esperienza in ambito socio-assistenziale.

Quali sono i dati chiave del bilancio che meglio raccontano il lavoro svolto?

Innanzitutto è importante sottolineare che la nostra realtà nonostante le difficoltà che si incontrano nell’ambito socio-assistenziale è riuscita a chiudere con un bilancio positivo portando avanti sia l’attività di assistenza degli anziani e delle persone con disabilità sia la riabilitazione, che resta il nucleo vivo della nostra opera, nei vari setting in cui operiamo. Il fatturato supera i 315 milioni di euro, ed è in crescita di 10 milioni. Possiamo dire che chiudiamo sostanzialmente in pareggio grazie al sostegno di tanti benefattori che ci permettono di affrontare anche il mancato adeguamento tariffario da parte di molte regioni in cui siamo presenti.

E le voci che più testimoniano la coerenza tra numeri e missione?

Il costo più importante è quello del personale, che assorbe oltre il 60 per cento delle nostre risorse. Abbiamo 6280 collaboratori, di cui poco più di quattromila dipendenti e altri che lavorano con noi come professionisti o all’interno di realtà di cooperazione. Numeri che si sono mantenuti stabili, anche leggermente in crescita rispetto all’anno precedente e che confermano la capacità di garantire continuità e stabilità nei servizi. Abbiamo venticinque strutture significative sul territorio, in nove regioni, e ventotto ambulatori territoriali, con cui copriamo oltre cinquanta località dove siamo presenti con servizi residenziali e ambulatoriali. Riusciamo a far fronte a una domanda di salute costantemente in crescita.

Quali le priorità strategiche per il 2025?

 In un’ottica di potenziamento dei servizi territoriali, anche grazie al supporto della ricerca scientifica, stiamo proseguendo nello sviluppo della tele riabilitazione, attraverso l’utilizzo di tecnologie avanzate come la robotica e l’intelligenza artificiale in un’ottica di migliorare la qualità, incrementare il numero di possibilità di risposte ai bisogni e di valorizzazione delle risorse umane. Parallelamente, stiamo rafforzando l’offerta di servizi domiciliari: sia quelli generali di assistenza (RSD), sia la formula dell’RSA aperta, fino all’ambito più delicato e impegnativo dell’assistenza domiciliare in cure palliative. Crediamo che proprio in questi servizi si giochi la nostra capacità di interpretare la prospettiva del Paese, che punta con decisione sul rafforzamento della rete territoriale. A ciò si affianca anche lo sviluppo dei servizi semiresidenziali e ambulatoriali.

Un’area in cui state investendo con forza è la riabilitazione rivolta a persone con gravi problematiche cerebrali

Siamo oggi, in Italia, la realtà con il maggior numero di interventi nel cosiddetto “Codice 75”, cioè l’assistenza a pazienti con gravi cerebrolesioni acquisite. Infine, pur essendo ben strutturati nel Nord Italia, stiamo concentrando una parte significativa dei nostri investimenti e della nostra progettualità nel Mezzogiorno, per offrire risposte concrete e di qualità anche in quelle aree ancora più fragili del Paese.

Qual è la politica che portate avanti?

Il 2024 è stato un anno di espansione per la Fondazione Don Gnocchi, con oltre 360mila pazienti assistiti e più di due milioni di prestazioni ambulatoriali. Una realtà gestita con criteri aziendali, ma fedele alla sua missione: prendersi cura delle persone e dei loro progetti di vita. La nostra è un’opera della Provvidenza resa possibile dal lavoro e dalla dedizione degli operatori. Ogni anno, in occasione del bilancio, visito le strutture e incontro i dipendenti per ringraziarli di persona. Su 4.000 lavoratori, si è registrato un turnover significativo: 500 uscite e 500 nuove assunzioni. Un cambio non solo  generazionale che ci spinge a investire non solo nella formazione professionale, ma anche in quella valoriale. Chi arriva da noi, magari con la speranza di un miracolo, trova soprattutto qualcuno disposto a condividere il peso della fragilità. Questo è il nostro segno più importante.

 

Cosa intendete per “prestazione”?

Presa in carico, percorso assistenziale. Un esempio su tutti: fornire una prestazione a un bambino autistico non significa soltanto svolgere un’attività ambulatoriale di quaranta minuti di logopedia, ma accostare la famiglia, la storia di quel bambino, le sue relazioni, le sue interazioni nella comunità.  Parlare di prestazione a volte è un po’ riduttivo.

Accanto alla dimensione sanitaria resta viva la matrice cristiana...

I numeri vanno letti alla luce di una visione più ampia, che mette al centro la persona e dove l’efficienza non è mai disgiunta dalla cura. Il bilancio diventa così non solo strumento di trasparenza, ma racconto vivo di una missione: accompagnare ogni persona nel proprio cammino, specie nei momenti di fragilità, con competenza, dignità e prossimità. La sostenibilità economica non è un fine ma un mezzo per garantire continuità, giustizia e futuro alla nostra opera. Vogliamo essere presenza viva e misericordiosa, capaci di custodire l’umano anche là dove è più ferito.

Don Gnocchi parlava di “carità intelligente”. Oggi che significato può avere questo binomio?

Prima di tutto la carità intelligente sa affrontare i problemi del nostro tempo con chiarezza. Don Carlo Gnocchi sapeva che da un lato ci sono le persone che hanno bisogno di assistenza, cui bisogna offrire il meglio possibile sia dal punto di vista del trattamento terapeutico sia della tecnologia, dall’altro, essendo lui stesso un educatore, sapeva che è necessario un lavoro culturale importante sia nei confronti degli operatori sia del Paese per ricordare che la prima forma di assistenza e di cura è vincere il dramma che accompagna le persone fragili: la solitudine. La solidarietà è la risposta più alta da porre in essere nei confronti della fragilità.  Nel corso di questi anni c’è stato un aumento di oltre il 10 per cento del volontariato e abbiamo oltre 120mila ore donate dai nostri volontari.

Chi sono i volontari?

Non soltanto quelli delle storiche associazioni a noi collegate – come AVO e altre realtà impegnate nel sociale – ma anche nuove forme di volontariato d’impresa, nate dal dialogo con il mondo produttivo. Si tratta di esperienze dall’alto valore culturale: accogliamo dipendenti di aziende che scelgono di dedicare una giornata o un periodo alla solidarietà, e con loro promuoviamo formazione sui valori della cura, del dono, dell’attenzione al più fragile. Un altro contributo prezioso arriva dai giovani del Servizio Civile: nel solo anno scorso, 64 ragazzi hanno scelto di trascorrere un anno nelle nostre strutture. Non sono "giovani per la Don Gnocchi", ma è la Don Gnocchi per i giovani: offriamo loro un percorso formativo e umano che ha un forte valore vocazionale. Incontrando la fragilità, possono interrogarsi sul senso della vita, sul proprio futuro, su ciò che davvero vale. A queste esperienze si è aggiunto, dallo scorso anno, un servizio singolare e coraggioso: l’accoglienza di persone impegnate in percorsi di giustizia riparativa. Abbiamo ospitato 37 ragazzi, inviati dai giudici a svolgere attività socialmente utili presso di noi. Anche per loro, la Fondazione diventa luogo di incontro e cambiamento: entrare in contatto con la fragilità può diventare occasione per riflettere e aprire spiragli di crescita e responsabilità.

 

Il volontariato è un servizio culturale al Paese?

Sì. È un segno che la cura dell’altro, se vissuta con verità, può generare cambiamento profondo, anche fuori dalle nostre strutture.

 

Come sta evolvendo il rapporto tra sanità pubblica e soggetti del Terzo Settore come la Fondazione Don Gnocchi? Quali sfide o opportunità intravede?

La sfida più urgente è far comprendere che il diritto alla salute, sancito dalla Costituzione, non può essere garantito solo dalla sanità pubblica. Serve una visione integrata, che valorizzi anche il ruolo della sanità no profit e di quella privata convenzionata. La sanità sta in piedi su tre gambe: pubblica, no profit e profit. Anche il privato sociale, come la nostra Fondazione, garantisce accesso alle cure, spesso con tariffe ben al di sotto del mercato, proprio per sostenere le fasce più fragili. Eppure, questo contributo sussidiario è spesso ignorato da chi governa, che tende a contrapporre pubblico e privato, dimenticando che la vera risposta ai bisogni passa dalla collaborazione.