Quando ha vinto l’oro olimpico di Grenoble nel 1968, la sua personalissima rivoluzione culturale, Franco Nones aveva una faccia da straniero, ma al contrario rispetto al capolavoro George Moustaki: gli occhi chiari come il mare li avevano in nordici per la prima volta sui gradini più bassi del podio della 30 chilometri di sci di fondo, che fin lì era stata il cortile di casa degli scandinavi, mai al di sotto di quella penisola nessuno aveva osato tanto.

Ne vennero fuori sui giornali del Nord e svedesi soprattutto ritratti un po’ caricaturali che esagerarono l’italiano piccolo e nero. In  realtà lo conoscevano e ammiravano perché si allenava spesso lì e perché aveva conquistato il cuore di una donna svedese, la moglie Inger Barneholm, che lo ha seguito a Castello in Val di Fiemme, dove tuttora abitano.

Dal Csi, che oggi festeggia 80 anni, all’oro olimpico, a Milano Cortina in arrivo che gli porterà come quasi un omaggio i Giochi in casa, è stato un lungo viaggio: anni passati veloci come giorni, che non sembrano avere lasciato significativi segni sulla sua eterna giovinezza.

È vero che ha cominciato da piccolo facendo le gare contro il treno in bicicletta?

«Sì la strada era ancora uno sterrato, io al mattino andavo a 13 anni a lavorare in segheria: 20 chilometri in discesa. Al ritorno aspettavo a metà montagna che il Capotreno fischiasse e io partivo in bicicletta e nove volte su dieci arrivavo qui alla stazione di Castello prima del treno. Logicamente il treno faceva le fermate previste… ma io arrivavo quasi sempre prima». Il passaggio allo sci è stato una scelta o una necessità climatica? «Giù nella bassa, tra Verona e Trento andavano in bicicletta tutto l’anno, qui con la neve io per molto mesi non potevo andarci, ero svantaggiato rispetto a quelli di pianura, è stato il clima di quassù a indirizzarmi allo sci di fondo».


Come la presero i nordici quando un italiano soffiò loro l’oro olimpico?

«Credo di essere stato una sorpresa ma fino a un certo punto, io avevo già fatto l’Olimpiade del 1964 ed ero arrivato decimo, voleva dire che avevo già battuto metà degli scandinavi perché Svezia, Norvegia, Finlandia e Russia, con quattro concorrenti per Nazione portavano in tutto 16 atleti. Ai Campionati di Oslo 1966 avevo già vinto il bronzo in staffetta con l’Italia e poi io sono arrivato sesto sulla 30 km. Gli scandinavi allora sapevano che io avrei potuto vincere o non vincere ma che ero uno tra i migliori, non dico che se lo aspettassero però mi conoscevano forse più di quanto mi conoscessero i non addetti ai lavori in Italia».

Come ha incontrato il Csi con cui ha cominciato?

«Essere iscritti a una società come il Csi era l’unico modo all’epoca di cominciare a gareggiare tra piccoli paesi e tra comuni all’inizio. Io credo che più del 90% dei ragazzi di montagna allora siano partiti sotto la bandiera del Centro sportivo italiano. Il fatto che fosse cattolico piaceva alla mia famiglia che era molto praticante, a mio padre, però, piaceva molto meno che io e mi fratello minore perdessimo la messa per le gare, non gli andava proprio giù dovevamo sempre partire di nascosto, aiutati con dalla mamma che ci comprendeva un po’ di più».

Sappiamo che Franco Nones non ha perso la fede, né smesso di praticare anzi. Quando suo padre ha fatto pace con le vostre gare?

«Non subito quando ho vinto il primo campionato italiano con il Csi, ma quando mi sono potuto arruolare in Guardia di Finanza e quello era un lavoro vero, e c’è stato un salto di qualità non solo perché avevo lo stipendio di un finanziere, ma anche perché lo avevo per allenarmi con il Gruppo sportivo e il mio carattere è sempre stato competitivo, ma direi che soprattutto i miei allenatori hanno capito che le mie possibilità erano abbastanza elevate, perché da subito quando ho cominciato a gareggiare nelle categorie inferiori ero sempre tra i primi. perché dal fatto che ho cominciato a gareggiare sono sempre stato tra i primi in ogni categoria. Il mio corpo reggeva bene lo sforzo e intensità di lavoro che altri magari non riuscivano a sostenere».

Qual è stata la qualità più importante, la resistenza o anche altro?

«Per avere resistenza bisogna avere anche la mentalità che serve a sopportare la fatica perché se hai le doti e non le sfrutti perché ti mancano volontà, grinta orgoglio di fare meglio degli altri, non arrivi anche se hai qualità non arrivi. Poi per quel che ricordo io l’appetito vien mangiando: se vinci in una categoria poi vuoi sfidarti in quella superiore io almeno ero fatto così».



Di quel giorno di Grenoble lei che ricordi ha? 

«Bei ricordi, perché la giornata era perfetta, il clima e la neve erano ottimi e andò tutto per il verso giusto, anche se non era ugualmente scontato arrivare sul primo gradino del podio olimpico in mezzo ai grandi di allora: secondo un norvegese, terzo un finlandese, mai prima di me era arrivato un non scandinavo. In quel momento si è mossa tutta l'Italia perché anche quelli che fino ad allora non seguivano lo sci di fondo dopo volevano mettersi un po’ in luce».

Lo sci di fondo è stato a lungo una disciplina poco visibile anche se all’Italia ha dato anche dopo soddisfazioni grandissime, ne ha sofferto? 

«Non particolarmente, sono consapevole che come sport non può avere la visibilità del calcio e dell’atletica che tutti possono praticare, perché bastano un pallone o un paio di scarpe, il fondo richiede le montagne, la neve, l’attrezzatura, bisogna trovare un insieme di cose che il cambiamento climatico renderà ancora più difficili».

Dopo di lei l’Italia ha vinto medaglie importantissime battendo la favorita Norvegia nella staffetta 4x10 a Lillehammer e a Torino, per dire solo i successi più clamorosi. Ha la sensazione di aver aperto la strada?

«Non c'è dubbio che la mia vittoria abbia aperto un po' le porte a tutto il mondo, mentre prima erano aperte solo per la Scandinavia: dopo sono arrivati gli americani, e altre nazioni, è stato un po’ come se si fosse tolto un tappo, se il mio successo avesse innescato la convinzione che non era così impossibile trovare un varco. All’inizio è stato anche buffo, Franco Nones finì su tutti i giornali nordici e in Italia parlava di me anche il giornalino dei pescatori di Catania. In Svezia scrivevano: “È scoppiata la bomba italiana”, ma sono convinto che non siano stati così sorpresi di vedermi arrivare, penso mi avessero già un po’ misurato, perché è vero che sul podio vanno in tre ma ce ne sono magari almeno dieci che potrebbero arrivarci».

Quanto è cambiato lo sci di fondo negli anni?

«Tantissimo, il discrimine è stato nei primi anni Settanta, perché prima gli sci erano solo di legno e dopo invece sono arrivate le solette in materiali plastici e le fibre di carbonio, che scorrono sulla neve in modo del tutto diverso e più favorevole rispetto al legno. Non solo gli sci di legno si rompevano spesso, e poi le piste non erano battute le battevamo con il passaggio degli sci, proprio un altro mondo».



Ci stiamo avvicinando a un'olimpiade invernale, lei l’avrà in casa, come la vivrà?

«Il Trentino è coinvolto proprio con lo sci di fondo, 33 medaglie su 100 saranno distribuite proprio qui in val di Fiemme. Penso che anche questo sia un successo che ha radici a Grenoble: è stato dopo quel momento che questa valle è diventa uno dei principali centri al mondo per lo sci di fondo. Dopo che avevo vinto io è nata la Marcialonga, la classica di casa nostra, è nato il trofeo Topolino, che coinvolgeva i bambini, in Val di Fiemme si sono organizzati tre campionati del Mondo, e adesso l’Olimpiade».

Come parteciperà Milano Cortina?

«Ho chiesto di non avere incarichi ufficiali nell’organizzazione, ma sanno che se c’è bisogno io sono sempre presente, è vero ho una certa età, ma grazie a Dio ho una salute di ferro, vado ogni giorno a camminare e lavorare mi piace ancora, ma è giusto che i giovani abbiano il loro spazio». Come convincerebbe un bambino a praticare sci di fondo? «Io vorrei convincere tutti i bambini a fare dello sport qualunque sia perché lo sport è attività fisica, è amicizia, è volersi bene: insegna a essere corretti nella vita, a non imbrogliare, dopodiché la scelta dello sport dipende da tante cose anche da dove uno abita».

Si fa più fatica su una pista da fondo o in segheria?

«Mah, io direi che tutto dipende dall’impegno che uno ci mette, si fa fatica in entrambi i casi, e in un caso e nell’altro, molto dipende da quanto si viole diventare bravi: vale con gli sci e vale in segheria e in qualsiasi lavoro: chi vuole fare bene deve metterci impegno».