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“Milano deve riprendere in mano la cultura della convivenza”, esclama Marco Garzonio quando gli chiediamo come Milano può superare la nuova tempesta giudiziaria che l’ha investita. Garzonio, giornalista e psicologo analista, presidente emerito della Fondazione Culturale Ambrosianeum, storica firma del Corriere della Sera, biografo del Cardinale Carlo Maria Martini, nel 2021 aveva scritto un libro, pubblicato da Edizioni San Paolo, intitolato: “La città che sale”, con un titolo mutuato dal’omonimo dipinto del pittore futurista Umberto Boccioni.
“Il quel libro c’erano dentro tutte le cose di cui stiamo parlando in questi giorni”, dice Garzonio, il quale ricorda oggi “la Milano che comincia a scalpitare appena inaugurato l’Expo” nel 2015, il “sindaco gentile” Giuliano Pisapia che nel 2017 decide di non ricandidarsi, la “spumeggiante Milano” (parole del sindaco Sala) del dopo Expo e “la Milano che si ritira, che non può resistere a questa ondata”.
Garzonio sottolinea che la “Milano spumeggiante” non è solo quella dell’urbanistica, ma anche “quella che in via Montenapoleone o in via della Spiga mette in vendita a 3 mila euro le borse e le giacche griffate prodotte non in Bangladesh o in Cina, ma a Locate Triulzi, come ho raccontato nel mio libro Il doppio sguardo”.
Qual è invece la Milano che si ritira rispetto alla Milano inebriata dal mattone, dai grandi progetti urbanistici e dai grattacieli?
“È la Milano popolare, ambientalista, della sinistra, cattolica, della Caritas, delle parrocchie, degli oratori estivi, delle San Vincenzo parrocchiali che pagano gli affitti e fanno i pacchi di generi alimentari, vanno a trovare le famiglie, sanno quali sono i loro bisogni”, risponde Garzonio.
“È la Milano dei lavoratori che non ha più voce”, prosegue lo scrittore, “la Milano popolare che ha piantato le tende in piazza perché gli studenti non trovano casa. Ormai a Milano affittano i posti letto, neppure le camere. Qui ci sono meno homeless rispetto alle città degli Stati Uniti, ma ci sono famiglie che non arrivano a fine mese. Oggi ormai chi parla dell’accoglienza a Milano? Mi dicono che se possono, anche gli immigrati evitano Milano. Qui diminuiscono le frequenze dei mezzi pubblici perché l’Atm non trova autisti. Arrivano dal sud, partecipano ai concorsi e magari dopo sei mesi se ne vanno perché le case costano troppo. Non trovano casa neppure negli immediati dintorni della città”.
Allora come se ne esce? “Se ne esce avendo il coraggio di ripensare questo modello di città. È un ripensamento che deve coinvolgere la Chiesa, i media e l’editoria (che a Milano hanno ancora un peso), il mondo culturale. Bisogna investire nelle biblioteche, nelle università, nel doposcuola. Serve riportare al centro le persone. Il grattacielo è la cima di un iceberg che ha travolto tutti. Ora Milano è piena di alberghi. E allora? Dobbiamo festeggiare? Forse questo favorisce il lavoro di bar e ristoranti, ma sono loro la struttura portante di una città? Riprendiamo in mano la cultura della convivenza, diamo spazio alla dimensione civica, culturale e pre politica”.



