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Georges Salines era un medico a Parigi, Azdyne Amimour un commerciante belga, quando le vite dei loro figli si intrecciarono tragicamente la sera del 13 novembre 2015 nella capitale francese. Lola Salines, 28 anni, muore sotto i colpi dei jihadisti durante la strage del Bataclan. Samy Amimour, suo coetaneo, faceva parte del commando terroristico e viene ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia quella stessa notte.
Stabilire quale dei due padri abbia sofferto un dolore più meritevole di comprensione può sembrare semplice. Ma seguendo questa comoda strada, non avremmo mai assistito alla nascita di una delle amicizie più improbabili, capace di offrire una profonda lezione di tolleranza, perdono e resilienza. Una testimonianza che i due uomini hanno portato oggi all’Università Cattolica di Milano, durante l’incontro “Sperare contro ogni speranza. Il coraggio del dialogo dopo il terrorismo: Georges Salines e Azdyne Amimour si raccontano”.
Poco più di un anno dopo la strage, Georges – ormai figura pubblica come rappresentante dell’associazione delle vittime “13onze15” – riceve nel febbraio 2017 un messaggio da Azdyne, che chiede di incontrarlo. Alla domanda sul perché, risponde: «Perché anche io mi sento una vittima».
«Da tempo mi interessavo, partecipando a convegni, alle madri degli jihadisti. Mi ero reso conto che anche loro perdevano i figli, ma quando erano ancora vivi. Per questo ho deciso di provare a considerare Azdyne una vittima. Bisogna distinguere i genitori dalle colpe dei figli. Evitare che l’orrore degli attentati si trasformi in odio verso i musulmani è, per me, fondamentale», spiega Georges.
Ma un conto è interessarsi alle mamme dei terroristi autori di altri attentati, un’altra è incontrare il padre di chi potrebbe aver ucciso sua figlia. Georges decide quindi di farsi accompagnare da Aurélia Gilbert, superstite della strage e tra i fondatori dell’associazione.


«Ci siamo visti per la prima volta in un caffè in piazza della Bastiglia», racconta Azdyne. «Volevo spiegargli che la mia non era una famiglia di jihadisti, raccontargli come avevamo cresciuto Samy, l’educazione che aveva ricevuto. Volevo dirgli che, dopo la sua radicalizzazione, ero andato fino in Siria per cercarlo, per essere sicuro di aver fatto tutto il possibile per riportarlo a casa. Ma non ci sono riuscito».
All’epoca Azdyne stava scrivendo un libro, che però decise di abbandonare per scriverne uno insieme a Georges: “A noi restano le parole” (Giunti, 2022). «Ora parliamo, ci confrontiamo, e sì, litighiamo proprio come fanno gli amici», aggiunge.
Georges sottolinea che, sebbene molti non abbiano capito o accettato la sua scelta – e alcuni l’hanno persino osteggiata – altri genitori di vittime del terrorismo, prima di lui, avevano già intrapreso lo stesso percorso, incontrando i genitori degli attentatori. E ogni volta, dice, il bilancio è stato positivo. La sua speranza è che questa esperienza possa “contagiare”, ispirare altri al dialogo e all’incontro.
Anche Azdyne non è da meno. Spesso bersaglio di insulti e aggressioni verbali proprio per essere padre di un terrorista, dice di non aver paura: «Per carattere sono sempre stato coraggioso. Se vengo attaccato, chiedo il motivo dell’odio e provo comunque a instaurare un dialogo. Quello che abbiamo fatto io e Georges è un ossimoro, ma io non sento di avere alcun merito. Sono semplicemente fatto così».



