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Per il mondo dello sci Kristian Ghedina, uno dei più forti discesiti italiani tra gli anni Ottanta e Novanta, che faceva la spaccata nel salto sulle gobbe del cammello della Sasslong di Santa Cristina, in val Gardena, era l’incarnazione dell’incoscienza. Oggi da padre ragiona di rischio con maggiore pacatezza e con l’età della saggezza: «La prima cosa che mi sento dire è che sono vicino ai genitori di Matteo Franzoso, conosco da vicino il loro dramma: mia madre è morta per una caduta stupida sugli sci quando avevo 16 anni e mio padre ha passato tutto il periodo delle mie gare con il terrore che mi succedesse qualcosa, anche perché io dalla velocità ero affascinato e anche dal rischio, cosa che aumentava giustamente le sue preoccupazioni. E ora, da fuori, condivido il fatto che si debba fare il massimo possibile per aumentare la sicurezza».
Che cosa si può fare in particolare?
«Premesso il fatto che il rischio intrinseco è ineliminabile, è vero che le piste d’allenamento non sono sempre preparate e attrezzate di protezioni e vie di fuga a livello della Coppa del mondo e lì forse qualcosa di più si deve ragionare di fare, per aumentare la sicurezza delle piste in cui ci si va a preparare dall’altra parte del mondo per avere neve invernale: parlo di pista, ma anche di bordopista, protezioni, spazi di fuga. A patto però di essere consapevoli che la discesa (discesa libera, la specialità più veloce e con meno curve dello sci alpino, ndr) è una disciplina con un rischio intrinseco, per quanto si lavori bene non esiste la pista sicura al 100%».
Ha posto l’accento sui materiali, sugli sci in particolare. Occorre fare qualcosa?
«Ne sentivo parlare lo scorso anno al Mondiale di Saalbach, aziende produttrici avevano meeting con la Fis, (la Federsci internazionale) per capire quale fosse la direzione da prendere per ridurre un po’ gli incidenti e gli infortuni, molto aumentati lo scorso anno. Si calcolava che in febbraio a Mondiale in corso gli atleti che si erano infortunati e fermati dall’inizio della stagione erano stati più di trenta. Se si calcola che in Coppa del mondo gli atleti sono circa 300, vuol dire un dieci per cento di infortunati, troppi».
Ma davvero si potrà convincere le aziende a produrre sci meno performanti?
«Solo se il limite viene dall’alto a livello di Federazione internazionale, perché agli atleti gli sci attuali danno veramente soddisfazione, più spingi e più crei velocità in curva, mentre prima in curva si rallentava, perché nell’azione sterzante dovevi controllare un po’ col piede, sbandare un po’, adesso si va come su binari che ti creano velocità ma se non sei preciso lo sci ti disarciona e ti fa volare. Se fossi un atleta neanch’io vorrei perdere questa sensazione, ma guardando dall’esterno mi dico che dall’alto si può e forse si deve cambiare».


Detto da uno noto per essere scavezzacollo…
«Sono consapevole che puoi fare tutto, mettere le migliori protezioni in pista, le migliori vie di fuga, vestire uno sciatore come Robocop e lì più di tanto non si può perché si viene limitati nei movimenti, ma in discesa libera il rischio c’è comunque. Anche se devo ammettere che io mi sono fatto male cercandomi i guai o con altri mezzi, con la moto o con la macchina, mentre sugli sci in gara e in allenamento sono caduto poche volte, perché ero molto più consapevole, avevo più cognizione di causa. Ma quando faccio gli incontri con gli sci club, con le aziende spiego anche sempre che negli sport di alta velocità c’è sempre rischio, e se prendiamo Formula uno, Motomondiale e Coppa del mondo discesa libera, vediamo che su dieci incidenti: si ha un infortunio in Formula uno; due con le moto; otto in discesa libera, segno che esiste un rischio in sé, probabilmente ineliminabile e che la discesa libera è più rischiosa dell'automobilismo e del motociclismo, parlo della pista, dello sport d'alto livello: siamo nell’ambito di una disciplina rischiosa che a questi livelli è un lavoro. Questo non significa che non si debba lavorare per renderla più sicura senza snaturarla».



