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Non che non lo si fosse intuito, ma il calcio non ha nessuna voglia di cambiare, di guardare avanti né altrove, men che meno di aprire le finestre e di svecchiarsi un po’. Non che il giovanilismo sia in sé positivo, ma è difficile non sentire almeno un po' innaturale il fatto che ci siano solo nonni a rappresentare una realtà abitata, in prevalenza, da nipoti, sempre più figli di un mondo dinamico e multietnico.
Eppure il calcio politico resta un affare da ultrasettantenni e Carlo Tavecchio, il nuovo presidente federale, non fa eccezione: a 71 anni rappresenta il pallone da una vita, da quindici anni – gli ultimi – è al vertice della Lega dilettanti. Ci sono ultrasettantenni illuminatissimi d’accordo, ma il neo presidente federale è già inciampato nel commisurare le parole al mondo che cambia.
Non ha ancora cominciato a parlare e ha già minato la credibilità di tutti i progetti antidiscriminazione che il calcio vorrà darsi da qui al 2057: vai a parlare di “calcio-scuola di vita contro il razzismo e la discriminazione di genere”, con una Federazione presieduta da un signore scivolato su una buccia di banana alla prima uscita di campagna elettorale (certo abbiamo amministratori pubblici che dicono indisturbati di molto peggio e allora forse è ipocrita prendersela con chi governa il pallone, però la credibilità resta un’altra faccenda…).
Il guaio è che non sono solo parole: il calcio tutto, Leghe in particolare, dimostra a larga maggioranza con questa elezione di non avere voglia di svoltare: sceglie anzi – contro la maggioranza di allenatori, calciatori e arbitri che fino a prova contraria il calcio lo rappresentano sul campo - di specchiarsi guardando indietro, anche se indietro, stando anche solo agli ultimi campionati, non è che ci sia granché di cui andar fieri: non solo perché il calcio italiano non è al momento ai vertici europei e perché ai Mondiali è andata come sappiamo, ma soprattutto perché negli stadi si eleggono facinorosi a interlocutori, si sta ostaggio dei peggiori, mentre le famiglie si rifugiano sul divano, nel timore che ci scappi il morto.
Quando succede dicono tutti di voler cambiare, ma quando si arriva al dunque si rifugiano tutti nell’usato sicuro. E niente cambia mai.
Eppure il calcio politico resta un affare da ultrasettantenni e Carlo Tavecchio, il nuovo presidente federale, non fa eccezione: a 71 anni rappresenta il pallone da una vita, da quindici anni – gli ultimi – è al vertice della Lega dilettanti. Ci sono ultrasettantenni illuminatissimi d’accordo, ma il neo presidente federale è già inciampato nel commisurare le parole al mondo che cambia.
Non ha ancora cominciato a parlare e ha già minato la credibilità di tutti i progetti antidiscriminazione che il calcio vorrà darsi da qui al 2057: vai a parlare di “calcio-scuola di vita contro il razzismo e la discriminazione di genere”, con una Federazione presieduta da un signore scivolato su una buccia di banana alla prima uscita di campagna elettorale (certo abbiamo amministratori pubblici che dicono indisturbati di molto peggio e allora forse è ipocrita prendersela con chi governa il pallone, però la credibilità resta un’altra faccenda…).
Il guaio è che non sono solo parole: il calcio tutto, Leghe in particolare, dimostra a larga maggioranza con questa elezione di non avere voglia di svoltare: sceglie anzi – contro la maggioranza di allenatori, calciatori e arbitri che fino a prova contraria il calcio lo rappresentano sul campo - di specchiarsi guardando indietro, anche se indietro, stando anche solo agli ultimi campionati, non è che ci sia granché di cui andar fieri: non solo perché il calcio italiano non è al momento ai vertici europei e perché ai Mondiali è andata come sappiamo, ma soprattutto perché negli stadi si eleggono facinorosi a interlocutori, si sta ostaggio dei peggiori, mentre le famiglie si rifugiano sul divano, nel timore che ci scappi il morto.
Quando succede dicono tutti di voler cambiare, ma quando si arriva al dunque si rifugiano tutti nell’usato sicuro. E niente cambia mai.



