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«Non posso più tornare a Gaza perché Israele mi ha rifiutato l’ingresso. Ho raccontato giorno per giorno quello che accadeva nella Striscia e questo, evidentemente, ha dato fastidio al governo israeliano». È la testimonianza di Gennaro Giudetti, operatore umanitario che ha lavorato per le Nazioni Unite nella Striscia da febbraio a settembre scorso. Con Angela Iantosca ha anche scritto il libro Con loro come loro (Paoline) sulla sua lunga esperienza in zone di guerra e crisi internazionali.
Giudetti, Israele e Hamas hanno trovato l’accordo per la “prima fase” dell’accordo di pace con la sospensione degli attacchi e il rilascio degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Che giudizio dà di questo piano?
«Non coinvolge i palestinesi e qualsiasi piano per il futuro di Gaza e della Palestina senza il coinvolgimento del popolo palestinese è destinato a finire male. Non ci possono essere al tavolo gli americani, gli europei e gli israeliani o un personaggio come Tony Blair che dovrà essere il manager della Striscia. I palestinesi sono in grado di gestirla anche per conto loro, non serve una persona dall'Occidente che è spia di una mentalità colonialista che non funziona e non serve».
Perché non può tornare a Gaza?
«Il governo israeliano mi ha rifiutato il visto. Nella Striscia non può entrare la stampa internazionale, i giornalisti palestinesi non vengono creduti perché bollati subito come appartenenti ad Hamas e, talvolta, vengono anche uccisi. Gli unici che parliamo siamo noi operatori umanitari internazionali. Ma chi parla, come ho fatto io, viene espulso e non fatto più tornare».
Ora cosa farà?
«Girerò l’Italia per raccontare quello che ho visto in questi mesi a Gaza».
Che situazione ha lasciato nella Striscia?
«Molto drammatica, a cominciare da Gaza City. Quello che si riesce a trasmettere tramite social media e giornali è sempre una piccola parte. Anche io stesso faccio fatica a raccontare perché il rischio è quello di cadere nello splatter. La maggior parte delle organizzazioni umanitarie ha ridotto le attività e a Gaza City quasi tutte hanno chiuso perché non si riesce più a lavorare. La città è stata accerchiata e i bombardamenti sono frequenti. È impossibile spostarsi da Nord a Sud. Mancano i servizi, hanno tagliato l'acqua e la luce è un problema a causa della scarsità di rifornimenti di carburante che servono per i generatori di energia elettrica sia negli ospedali che negli impianti di desalinificazione. Il cibo non entra, o entra sempre a singhiozzo, e comunque è insufficiente per sfamare la popolazione. Lo stesso vale per i medicinali e altri strumenti tipo incubatrici o farmaci antitumorali, a volte non fanno entrare le stampelle, ventilatori polmonari. Israele lo fa apposta per rallentare o impedire il lavoro degli operatori umanitari».
Come è stata percepita dal popolo palestinese la Global Sumud Flotilla di cui tanto si discute in Europa e che ha suscitato una grande mobilitazione di piazza?
«La missione ha funzionato, anche se è finita come è finita, perché ha acceso un grosso faro su Gaza. Ora però bisogna continuare a tenerlo acceso. I veri eroi non siamo noi operatori umanitari né gli attivisti della Flotilla ma il popolo palestinese che vive nella Striscia. Le mobilitazioni di piazza, le manifestazioni, la stessa Flotilla che ha fatto un lavoro straordinario sono, e devono continuare ad essere, uno strumento e non il fine».
In questi mesi di missione cosa le è rimasto più impresso?
«Il grado di distruzione che c’è nella Striscia. È da quindici anni che lavoro in situazioni di guerra, sono stato in Siria, Yemen, Afghanistan, Congo, Centrafrica, Haiti, ma la distruzione e la violenza che ho visto a Gaza è qualcosa che va al di là di ogni immaginazione con i cecchini che sparavano in testa ai bambini. Che odio devi nutrire per prendere la mira e colpire un bambino? Per il 95 per cento Gaza è un cumulo di macerie a cielo aperto. La mia speranza è che in Italia, in Europa, nel mondo si continui a parlare di questo massacro e non si abbandoni il popolo palestinese a se stesso».



