Il tema della sicurezza sul lavoro in Italia è caldissimo, L’altro ispettore, per una volta non di Polizia, accende un riflettore proprio su questa piaga.

Bruno Giordano è magistrato all’ufficio del Massimario della Cassazione, è stato a capo dell’Ispettorato del lavoro, ha insegnato diritto della sicurezza sul lavoro all’Università di Milano ed è tra i massimi esperti del tema. Ha visto per noi la fiction L’altro ispettore, per capire quanto rappresenti davvero la realtà. Ecco che cosa ci ha raccontato.

Bruno Giordano durante il convegno: Una Repubblica fondata sul lavoro ''sicuro'', 2024
Bruno Giordano durante il convegno: Una Repubblica fondata sul lavoro ''sicuro'', 2024
Bruno Giordano durante il convegno: Una Repubblica fondata sul lavoro ''sicuro'', 2024 (ANSA)

Lei ha avuto in passato il ruolo di dirigere e coordinare l'ispettorato del lavoro, L’altro ispettore dà una visione realistica di questo lavoro?

«Senz'altro sì, nel senso che emerge il costo umano di questo tema, sulle vittime, sulle famiglie, ma anche il senso di solitudine di chi per lavoro se ne occupa: l’ispettore Dodaro, la Pm, i carabinieri del lavoro. Mi piace il fatto che per la prima volta il protagonista non sia il commissario che cerca un assassino, ma che si capisca che l’assassino qui spesso è la logica del profitto per il profitto e questo è realistico».

I primi degli episodi è riferito a un caso reale, riconoscibile, tanto che c'è una dedica esplicita a Luana D’Orazio.

Gli altri sono episodi esemplari ispirati fatti reali di diverse tipologie. Quanto rendono la realtà?

«Sono realistici sia nella casistica sia nella dinamica, sia nel contesto umano e sociale che viene rappresentato. Averli messi insieme, l'uno dietro l'altro, con il minimo denominatore della funzione dell'ispettore Dodaro, secondo me ha messo in evidenza la varietà della realtà. Mi è piaciuto il fatto che il cemento di tutti i casi non è soltanto il lavoro che uccide o ferisce, ma anche la solitudine delle figure che se ne occupano, che nel doversi arrangiare solidarizzano, non emerge una forma di protagonismo, come forse può capitare in certe fiction polizieschi, ma una solitudine in cui c'è solidarietà. Questo corrisponde alla verità dei rapporti che si creano».

Cantieri e cave tra i luoghi a rischio rappresentati nella fiction

Lei tante volte ha sottolineato il fatto che l’Italia patisce su questo tema la presenza di troppi enti impegnati nel controllo sul lavoro mal coordinati tra loro. Quanto è significativo questo aspetto che nella fiction direttamente non si vede?

«Si vede tra le righe nel fatto che nella fiction ogni caso si risolve con la spontanea buona volontà degli operatori, che si danno da fare e cercando di collaborare con i colleghi degli altri enti. La frammentazione delle competenze tra tantissimi organi di vigilanza e la sovrapposizione delle competenze tra quelle istituzionali dell'Inps e dell'Inail, quelle statali dell'Ispettorato e di altre agenzie, quelle regionali delle Asl, è il principale problema quando si parla di contrastare l’insicurezza sul lavoro in Italia, perché nella situazione caotica che si crea proliferano varie forme di illegalità. La fiction rappresenta questo proprio perché fa notare che le idee, le iniziative, i sospetti, la ricerca della verità sono affidati soltanto all’intuizione dei singoli. Per contrasto emerge che non c’è altra strada se non il darsi da fare da soli».

Faldoni di carta in una scena dell'Altro ispettore
Faldoni di carta in una scena dell'Altro ispettore
Faldoni di carta in una scena della fiction

Riesce a fare esempi?

«Non si vede mai nella fiction un ricorso a banche dati, mai che uno mettendosi davanti a un computer possa conoscere la vita di un'impresa: addirittura l'ispettore Dodaro deve andare a cercare in un vecchio archivio di faldoni i precedenti di un'azienda. Questo è il risvolto tecnico della mancanza di coordinamento. Se ci fossero coordinamento e banche dati comuni accessibili in collegamento, come è previsto sulla carta, per esempio, con il portale nazionale del sommerso, noi avremmo nella realtà una prevenzione molto più forte, molto più incisiva. Nonostante le norme esistano da vent'anni, evidentemente c'è qualcosa che porta a resistere nella collaborazione tra gli enti».

A proposito di norme, da qualche settimana è in vigore un decreto che si occupa di temi di sicurezza sul lavoro, che dovrà essere convertito in legge entro il 30 dicembre. Che idea se ne è fatto?

«Il decreto è stato annunciato per il Primo maggio ed è arrivato dopo sei mesi, segno di un lungo tavolo con le parti sociali, cui, da quello che ho potuto capire dalle fonti di stampa, non hanno partecipato il Ministero della Salute e il Ministero della Giustizia. Questo indica un approccio che non tende a rendere più sicuro il luogo di lavoro e più giusta ed efficiente la tutela del lavoro. Si parla di misure che già esistevano e che sono state solo codificate per legge e di interventi palliativi, per esempio il badge elettronico nei cantieri edili, quando il tesserino era già previsto da 18 anni: la montagna ha partorito il topolino».

Il badge dovrebbe aiutare i controlli?

«Può contribuire a capire se un lavoratore è regolare o meno, ma non ad evitare che gli crolli addosso una torre medievale, per fare un esempio attuale. Non si cade da un ponteggio perché si ha in tasca si ha un tesserino di carta anziché elettronico. Inoltre il decreto non comprende nulla che abbia effettiva capacità di prevenzione: istituisce nuovi obblighi soprattutto per le piccole e medie imprese. Se le nuove norme sono nuovi costi per le imprese, ma non incidono sulla sicurezza reale, è meglio non farle perché aiutano il business della sicurezza senza fare effettivamente sicurezza nelle aziende».

Si parla tanto di “cultura della sicurezza”, espressione per la quale ha poca simpatia. Perché?

«In Italia non manca la cultura, cioè la preparazione tecnica, scientifica, giuridica: siamo tra i Paesi europei più attrezzati come cognizione di come fare sicurezza. La tragedia di questo Paese è che nei cantieri, nelle fabbriche, nelle aziende agricole si conta ogni anno un numero di morti che vale 20 volte i casi di femminicidio e 5 volte i casi di omicidio per criminalità organizzata: un tema enorme che non può essere liquidato con un’espressione come “cultura della sicurezza” che non può che piacere a tutti ma dice tutto e niente. Se vogliamo parlare di un approccio non tecnico, ma culturale, sarebbe meglio fare riferimento alla “cultura del lavoro”: qual è l'idea che noi abbiamo del lavoro non solo come fondamento della democrazia ma come principio costituzionale e principio di convivenza civile?».

Allude all’articolo 1 della Costituzione?

«La parola lavoro nella Costituzione viene introdotta su proposta di Amintore Fanfani (una figura storica della Dc, ndr.) come fondamento della democrazia, perché il lavoro è la fonte di tutti i diritti, di tutte le libertà e della dignità della persona. Quindi, se volessimo toccare un tema culturale, basterebbe prendere gli articoli della Costituzione e pretendere di calarli nella realtà quotidiana. Parlo di retribuzione, che è prevista come dignitosa per il lavoratore e per la sua famiglia, della rappresentanza sindacale che da 70 anni aspetta una legge, dell’ambiente di lavoro. Si pensi al caso Ilva: dimostra che il tema del lavoro non può restare slegato da quello ambientale. Il nodo è unico, sia nelle piccole che nelle grandi imprese, non si può più parlare soltanto di lavoro, ma di equilibrio tra il lavoro, la sicurezza e l'occupazione».

Che cosa servirebbe?

«Approcci sistematici, programmatici, perché il lavoro è fatto anche di programmazione economica e di tutela dei diritti fondamentali. Anche nello sceneggiato di cui stiamo parlando, si coglie il fatto che si parli di cave, di orditoi, di cantieri edili, il nucleo del tema sociale è nel fatto che oggi noi parliamo di diritti del lavoro, quasi fossero una utopia, benché siano diritti che abbiamo già tutelato con lo statuto dei lavoratori, 55 anni fa».

In effetti il caso di Luana D’Orazio riporta alla Prato descritta nel 1958 da don Lorenzo Milani nella lettera a don Piero. Possibile che il diritto del lavoro sia un guscio vuoto?

«Sta diventando un guscio vuoto perché alcuni fattori sociali, economici e politici di questi ultimi dieci anni hanno eroso i diritti del lavoro, hanno svuotato di effettività le tutele del lavoro. Sono sulla carta, ma di fatto sono diventate molto più difficili da mettere in pratica e da realizzare. Si pensi alla flessibilità che è stata venduta come punto di raccordo tra la domanda e l'offerta di lavoro ma che è diventata precarietà. E la precarietà è diventata debolezza del lavoratore e quindi insicurezza: perché chi è precario non rivendica i propri diritti per timore di perdere il posto. Non solo, la rarefazione dei controlli ha portato all'idea che si possa fare come se la norma non esistesse, perché se non la fai rispettare, se non vai a controllare è ovvio che il titolare di un'impresa è portato a pensare che quella norma si possa violare».

I protagonisti: Cesare Bocci, Alessio Vassallo e Francesca Inaudi

Lei ha scritto di recente un libro intitolato Operaicidio: la sicurezza sul lavoro è un problema più grande per alcuni?

«Certamente, basta guardare le statistiche dell'ultimo anno: su oltre mille morti, soltanto due non erano operai, questo significa che si muore quando si è in manodopera, quando si lavora a contatto con le fonti di rischio, non si muore in un consiglio di amministrazione o in una cattedra universitaria, si muore nelle fabbriche, nelle aziende».

Non si fa abbastanza per contrastare il rischio intrinseco al tipo di operatività?

«Si pensi al fatto che l’uso della manodopera si è caratterizzato moltissimo in questi anni per la presenza di operai stranieri, si consideri che secondo una statistica il 70% dei lavoratori in cantieri edili parla arabo, il tema della classe operaia è fuso con quello dell'immigrazione: in termini di sicurezza vuol dire che in questi luoghi di lavoro c’è una confusione fisiologica che determina maggiori rischi, che si aggiungono a quelli dell’operatività: il non comprendere bene la lingua, il far parte di etnie diverse, aumenta i rischi dati anche dalla difficoltà di formazione vera, soggettiva, delle persone che lavorano. In secondo luogo “operaicidio” allude al fatto che di omicidi sul lavoro stiamo parlando: la morte è neutra, naturale, riguarda tutti gli esseri viventi, l'omicidio o la lesione implica che un uomo abbia fatto del male colposamente a un altro uomo e che quindi ci sia una responsabilità».

A proposito di responsabilità, nel caso D’Orazio, dove c’è stata la responsabilità nella manomissione dei sistemi di sicurezza, l’opinione pubblica ha vissuto il patteggiamento come un’ingiustizia. Che cosa possiamo dire al riguardo?

«Bisogna dire che il patteggiamento in questi casi presuppone sempre un avvenuto risarcimento del danno e quindi una risoluzione del processo anticipata sia per gli imputati che per le vittime, questo spesso è la formula risolutiva perché le vittime devono accettare una transazione per ricevere subito un risarcimento anziché affrontare le spese di anni e anni di processo. Il risarcimento è importante perché dà modo di andare avanti a una famiglia che in molti casi perde l'unica fonte di reddito per la morte di un proprio congiunto, ma il libro si conclude non casualmente con 15 proposte per migliorare la sicurezza, una di queste suggerisce garantire alle vittime del lavoro il patrocinio a spese dello Stato, perché le famiglie che restano non possono permettersi di sostenere per anni delle spese legali spesso con la controparte di imprese molto forti che possono permettersi invece di restare nel processo per anni. Questo è un fattore di diseguaglianza. Il gratuito patrocinio non la risolve, ma la può attenuare».