Essere Kennedy, portare il nome di una delle dinastie più celebri del mondo, per lei non è mai stato né un peso né una responsabilità. «Sono così fortunata per ciò che vivo ogni giorno», confessa Kerry Kennedy,
54 anni, settima degli undici figli di Robert e sua moglie Ethel, «sento gratitudine per il fatto di essere parte di questa grande famiglia».
Kerry Kennedy aveva 4 anni quando suo zio John, presidente degli Stati Uniti, venne assassinato a Dallas. Troppo piccola per avere una percezione nitida dello smarrimento che quel giorno, il 22 novembre 1963, investì il Paese e il mondo. Ma era già abbastanza grande quando, nel 1968, lo stesso tragico destino toccò a suo padre Bob, candidato alle primarie democratiche. Kerry ha raccolto l’eredità di Bob e di John Kennedy e continua la loro battaglia in difesa dei diritti umani e civili attraverso il Robert F. Kennedy Center for Justice and Human Rights. È stata di recente a Roma per inaugurare la mostra fotografica Freedom fighters. I Kennedy e la battaglia per i diritti civili (al Maxxi fino al 25 novembre). Un impegno umanitario che Kerry sta tramandando alle figlie, Cara, Mariah, gemelle diciottenni, e Michaela, 16 anni. «Cara è venuta con me in missione in Uganda la scorsa primavera. Mariah mi ha seguito nel Western Sahara».
Alla Galleria Alberto Sordi, dove l’abbiamo incontrata, sorride e mostra un braccialetto che porta al polso: «Questo lo ha fatto la più piccola, Michaela. Ha creato molti esemplari, li vende e quello che ricava lo destina alla costruzione di scuole in Messico».
Quali sono le lotte per i diritti umani sulle quali dobbiamo puntare in questo momento?
«Se vuoi far progredire i diritti umani c’è una sola strada: dare maggiore forza alle donne. Un altro
grave problema, che accomuna Stati Uniti e Italia, è il fenomeno dell’immigrazione. E poi il problema
delle carceri, la giustizia, la privacy e l’accesso alle informazioni: cosa permettiamo al Governo
e alle corporazioni di sapere di noi?».
Nel 1963 ci fu anche la Marcia su Washington guidata da Martin Luther King. La discriminazione razziale è ancora un tema caldo negli Usa?
«Certo, è ancora una piaga profonda. Anche se abbiamo un presidente afroamericano, assistiamo
ancora a un’enorme violenza razziale. Ora la discriminazione più preoccupante che stiamo vivendo
è il divario crescente tra ricchi e poveri: i 400 americani più ricchi del Paese insieme hanno più
ricchezza dei 150 milioni di americani più poveri. Ci rendiamo conto di cosa significa? È pazzesco».
Qual è l’insegnamento più significativo che John Kennedy ha lasciato?
«Quando penso a lui mi piace tornare indietro alle sue parole: “Non domandarti cosa il Paese può fare per te. Chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. Questa è la sfida per ciascuno di noi oggi. Cosa posso fare io per la mia nazione? Cosa sono disposto a sacrificare? Quali sacrifici faccio ogni giorno per migliorare la mia comunità, per dare il mio contributo alla pace e alla giustizia?».
E la lezione di vita che lei ha ricevuto dalla sua famiglia?
«Il valore del coraggio e l’impegno verso il prossimo: abbiamo bisogno di contare gli uni sugli
altri, prima nell’ambito della famiglia, poi nella nostra comunità e nel nostro Paese».
Chi ha raccolto l’eredità di John Kennedy?
«Tantissime persone, nel mio Paese e nel mondo. A partire dai giovani che lavorano per gli organismi
umanitari; ma anche i giornalisti che fanno seriamente il loro lavoro e indagano sulla corruzione.
E poi il nostro papa Francesco, che ci pone di fronte alla sfida dell’umiltà e della povertà». l
54 anni, settima degli undici figli di Robert e sua moglie Ethel, «sento gratitudine per il fatto di essere parte di questa grande famiglia».
Kerry Kennedy aveva 4 anni quando suo zio John, presidente degli Stati Uniti, venne assassinato a Dallas. Troppo piccola per avere una percezione nitida dello smarrimento che quel giorno, il 22 novembre 1963, investì il Paese e il mondo. Ma era già abbastanza grande quando, nel 1968, lo stesso tragico destino toccò a suo padre Bob, candidato alle primarie democratiche. Kerry ha raccolto l’eredità di Bob e di John Kennedy e continua la loro battaglia in difesa dei diritti umani e civili attraverso il Robert F. Kennedy Center for Justice and Human Rights. È stata di recente a Roma per inaugurare la mostra fotografica Freedom fighters. I Kennedy e la battaglia per i diritti civili (al Maxxi fino al 25 novembre). Un impegno umanitario che Kerry sta tramandando alle figlie, Cara, Mariah, gemelle diciottenni, e Michaela, 16 anni. «Cara è venuta con me in missione in Uganda la scorsa primavera. Mariah mi ha seguito nel Western Sahara».
Alla Galleria Alberto Sordi, dove l’abbiamo incontrata, sorride e mostra un braccialetto che porta al polso: «Questo lo ha fatto la più piccola, Michaela. Ha creato molti esemplari, li vende e quello che ricava lo destina alla costruzione di scuole in Messico».
Quali sono le lotte per i diritti umani sulle quali dobbiamo puntare in questo momento?
«Se vuoi far progredire i diritti umani c’è una sola strada: dare maggiore forza alle donne. Un altro
grave problema, che accomuna Stati Uniti e Italia, è il fenomeno dell’immigrazione. E poi il problema
delle carceri, la giustizia, la privacy e l’accesso alle informazioni: cosa permettiamo al Governo
e alle corporazioni di sapere di noi?».
Nel 1963 ci fu anche la Marcia su Washington guidata da Martin Luther King. La discriminazione razziale è ancora un tema caldo negli Usa?
«Certo, è ancora una piaga profonda. Anche se abbiamo un presidente afroamericano, assistiamo
ancora a un’enorme violenza razziale. Ora la discriminazione più preoccupante che stiamo vivendo
è il divario crescente tra ricchi e poveri: i 400 americani più ricchi del Paese insieme hanno più
ricchezza dei 150 milioni di americani più poveri. Ci rendiamo conto di cosa significa? È pazzesco».
Qual è l’insegnamento più significativo che John Kennedy ha lasciato?
«Quando penso a lui mi piace tornare indietro alle sue parole: “Non domandarti cosa il Paese può fare per te. Chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. Questa è la sfida per ciascuno di noi oggi. Cosa posso fare io per la mia nazione? Cosa sono disposto a sacrificare? Quali sacrifici faccio ogni giorno per migliorare la mia comunità, per dare il mio contributo alla pace e alla giustizia?».
E la lezione di vita che lei ha ricevuto dalla sua famiglia?
«Il valore del coraggio e l’impegno verso il prossimo: abbiamo bisogno di contare gli uni sugli
altri, prima nell’ambito della famiglia, poi nella nostra comunità e nel nostro Paese».
Chi ha raccolto l’eredità di John Kennedy?
«Tantissime persone, nel mio Paese e nel mondo. A partire dai giovani che lavorano per gli organismi
umanitari; ma anche i giornalisti che fanno seriamente il loro lavoro e indagano sulla corruzione.
E poi il nostro papa Francesco, che ci pone di fronte alla sfida dell’umiltà e della povertà». l


